mercoledì 31 ottobre 2012

E Augusto inventò il principe nel nome della Repubblica. La campagna contro l'Egitto, capolavoro di propaganda

Corriere della Sera, 09.10.2012
E Augusto inventò il principe nel nome della Repubblica. La campagna contro l'Egitto, capolavoro di propaganda
Luciano Canfora

Gaio Ottavio, poi Gaio Giulio Cesare dopo che Cesare lo adottò come figlio (44 a. C.), vulgo Ottaviano, detto così da chi voleva rimarcare le sue origini plebee, poi Augusto, poi «divo Augusto» post mortem, era nato nell'anno del consolato di Cicerone (63 a. C.) e morì nel 14 d. C., a settantasette anni, dopo essere stato ininterrottamente al potere in varie forme, dal 43 a. C. fino alla morte, per 57 anni. È difficile trovare nella storia una carriera più lunga. Era un precoce e fu, tra i reggitori dell'impero, il più longevo. Da giovanissimo, men che diciottenne, aveva preso parte all'ultima campagna cesariana della lunga guerra civile: la pericolosa campagna di Spagna contro i figli di Pompeo, che avevano sollevato la regione, facendo leva sugli antichi legami di clientela del loro padre Pompeo Magno. La carriera di Ottaviano fu segnata da quella campagna. La sua ascesa politica incominciò allora. Può essere utile ricordare che toccò proprio a lui, molti anni dopo, completare la conquista della Spagna (26 a.C.). Ci sono grandi capi politici la cui «grandezza» risulta, nell'immagine recepita dalla tradizione e in fondo anche dalla storiografia, menomata dalla grandezza del predecessore. Ci riferiamo beninteso non già a quello che la ricerca accerta e ricolloca nella giusta dimensione attraverso un costante lavoro sui documenti, ma all'immagine consolidata: che pure ha anch'essa il suo rilievo ed è essa stessa, in certo senso, un fatto storico.Pensiamo ad Augusto alle prese con il gigantesco suo padre adottivo Giulio Cesare, pensiamo ad Adriano rispetto a Traiano(il "nuovo fondatore" dell'impero e conquistatore della Dacia, impresa pari, per durezza e durevolezza degli effetti, alla conquista cesariana della Gallia), a Costantino VII rispetto a Basilio I, a Filippo II rispetto a Carlo V, a Stalin rispetto a Lenin e così via. Lo studio della «fenomenologia del capo» meriterebbe una trattazione a parte: il «caso Augusto» è, da questo punto di vista, emblematico. Eppure la sua carriera come capoparte spregiudicato, triumviro spietato, abile artefice di una apparente «restaurazione della Repubblica» che di fatto consisteva nella creazione di una nuova forma di potere personale definibile come principato (né monarchia né libera repubblica), non deve offuscare l'opera sua di costruzione imperiale e di consolidamento e ampliamento dell'impero sul piano diplomatico e militare. Il perno di questo rinnovamento fu la guerra contro l'Egitto di Cleopatra (per parte sua sorretta dalle legioni e dall'esperienza militare di Antonio): la «guerra di Azio» (31 a. C.) seguita dalla «guerra di Alessandria», cioè dalla conquista, quasi senza colpo ferire, dell'Egitto nonostante il tentativo postremo di Cleopatra di sedurre anche il gelido Ottaviano. Si sorride di solito della scomposta esultanza di Orazio (Odi, I, 37) alla notizia della vittoria di Agrippa e di Ottaviano sulla flotta della regina che apprestava «dementes ruinas» a danno del Campidoglio. Si sorride del poeta servile che cerca di cancellare il ricordo della sua giovanile militanza repubblicana a Filippi (42 a. C.) ingigantendo il «pericolo egiziano» sventato dalla vittoria di Ottaviano ad Azio. Ma non vi è solo questo in quel celebre testo modellato sull'incipit di una altrettanto celebre poesia di Alceo. Vi è anche l'adozione del motivo principale della propaganda augustea secondo cui quella di Azio non fu l'ultimo atto della lunga guerra civile bensì una guerra esterna contro una ragguardevole potenza — l'Egitto (l'ultimo grande regno erede dell'impero di Alessandro Magno) — divenuta ancor più temibile a causa del tradimento di Antonio messosi contro Roma al servizio di una potenza straniera. E come in tutte le propagande, vi è anche un residuo di verità in una tale impostazione, giacché davvero una vittoria antoniana ad Azio avrebbe impresso una svolta all'impalcatura imperiale romana dalle conseguenze imprevedibili: ivi compresa l'adozione di un modello di regalità ellenistica che avrebbe trovato un terreno tutt'altro che sfavorevole anche nel centro del potere, e che Augusto esorcizzò e per un tempo lunghissimo rinviò grazie alla sua linea «occidentalistica» e restauratrice delle tradizioni romane, assecondata da zelanti «intellettuali organici» come il Virgilio dell'Eneide e l'indigesto Properzio del IV libro delle Elegie. La conquista dell'Egitto non solo segnò la fine della lunga scia di Alessandro Magno, ma fu il perno di un riordino dell'assetto provinciale e della distribuzione territoriale delle legioni a tutto vantaggio del princeps e a detrimento della più potente casta repubblicana, pur sempre egemone sul piano sociale, quale il Senato di Roma. Sul piano diplomatico il nuovo assetto dell'Oriente conseguente alla vittoria sull'Egitto comportava anche la determinazione di condizioni di buon vicinato col regno dei Parti. che già avevano umiliato Roma al tempo di Carre (53 a.C.) e che avevano sfondato in Siria al tempo del "protettorato" antoniano sulla pars Orientis (campagna di Ventidio: 38 a.C.). OraAugusto ottenne la simbolica restituzione delle insegne romane sottratte a Carre allo sconfitto Crasso. E la sua tela diplomatica si spinse ancora più ad oriente verso l'India. Il che giovò anche a un incremento dei commerci su quel versante (la «via della seta»). Fu nel mondo germanico che la politica imperiale di Augusto subì una pesante battuta d'arresto, con la sconfitta catastrofica di Quintilio Varo caduto in trappola nella foresta di Teutoburgo il 9 d.C., cinque anni prima della morte del princeps. Ventimila uomini massacrati sul posto e il suicidio di Varo cancellarono definitivamente l'illusione di "romanizzare" il mondo germanico. Il confine fortificato si assestò, allora, definitivamente sul Reno. Ottaviano, divenuto Augusto nel 27 a. C. nell'atto stesso di «restaurare la Repubblica», aveva conquistato diciannovenne con un colpo di Stato e marciando su Roma il massimo potere repubblicano (il consolato), dopo aver liquidato i consoli in carica nel corso del caotico epilogo della «guerra di Modena» (43 a. C.). E si è congedato dal potere e dalla vita (14 d. C.) minacciando — nei primi righi delle Res Gestae fatti leggere davanti al Senato all'indomani della sua morte— una riapertura delle guerre civili ove la torsione in senso dinastico nella «restaurata» Repubblica non fosse stata accettata dalla frastornata casta senatoria ormai priva di potere militare. Il fatto che il successore designato leggesse al Senato quelle pesanti parole con cui le Res Gestae incominciano («Ho salvato la Repubblica all'età di diciannove anni arruolando un esercito privato») non era solo una larvata minaccia: era il segno più chiaro che il princeps morente aveva designato il nuovo princeps, e che dunque un'altra forma di potere si era ormai consolidata.

sabato 27 ottobre 2012

The Lost Legions Of Varus



n the autumn of 9 AD Roman forces occupying Northern Germany were lured into a death trap. Over 20,000 of the world's most feared troops, their families, even their animals, were slaughtered by Iron Age tribes. The bloody massacre defined forever the limits of Roman expansion and left Europe fatefully divided, yet for almost 2,000 years the exact site of this disaster was only guessed at. Then, in 1987, a British soldier made a find that suggested the true whereabouts of the 'Battle of Teutoburg'. Today a grim picture of deception, ambush and ritual slaughter is beginning to emerge.

"In the autumn of A.D. 9 Varus marched his three legions from their summer camp to a winter camp further west. The army was huge, fifteen thousand men plus a train of ten thousand women, children, slaves and pack animals. The march was scheduled to take several days, over difficult terrain, and at times the column would be up to nine miles long as they wound through narrow forest tracks and ravines. Because of the fatal trust of Varus and the cunning of Arminius the Germans knew the exact route this long, lumbering army would take. Thousands of German warriors prepared the trail with trapdoors, hides and traps, and waited.

Varus' army marched without incident for the first day then, just before dusk, when the entire army was far from the safety of camp and committed to the march, the Germans sprang their trap. Small-bands of warriors burst from their hides and cut down passing Romans then melted into the forest. Spears were hurled from trees or rocky outcrops. The Romans, trained to fight in large formations in the open field, were ambushed as they milled in complete disarray. Isolated and confused, they were cut to pieces by one attack after another. For three days and three nights the Germans hunted the shattered bands of Romans to extinction, deep in the dark rain-drenched forest. There were few survivors. Some, including Varus, chose suicide rather than fall into enemy hands. It was the German practice to sacrifice their prisoners to their Druidic gods by crucifying them on sacred oak trees. After the battle the heads of the Roman dead were nailed up along the trail; all except for Varus, whose head Arminius presented to Morboduus, the King of Bohemia, in an attempt to impress him.

Legend has it that it was not until Morboduus forwarded Varus' head to the Emperor that Rome became aware of the disaster that had befallen the German garrison. Three entire legions, out of Rome's twenty-eight, were swallowed by the Teutoberg forest. But the defeat in Germany generated shockwaves far beyond the magnitude of the loss, which was smaller than Carrhae, and indeed smaller than the losses during the civil wars. Those three days in the German forest decided the course of history for millennia to come. Rome was already short of military manpower and the losses in Germany simply could not be made up. Those three legions disappeared form the roles forever and the Roman army would never again field more than twenty-five legions. As the old emperor Augustus drew near death, at the age of seventy-nine, he was seen by his servants wandering the palace weeping and crying "Quinctilius Varus give me back my legions!" The blow to Roman confidence was irreparable. In his will Augustus advised Tiberius to never again cross the Rhine -- "be satisfied with what we have and never desire to increase the size of the empire". This policy would hold until the fall of Rome."
http://www.fighttimes.com/magazine/magazine.asp?article=719

domenica 21 ottobre 2012

Roma, Romae. Il doppio volto dell'Impero

Corriere della sera, 09.10.2012
Roma, Romae. Il doppio volto dell'Impero
Accanto al dominio brutale delle armi una politica di integrazione unica
Lauretta Colonnelli

Roma agli inizi dell'Impero è descritta mirabilmente da Seneca: una città popolata da un milione di abitanti, che a malapena riescono a trovare ospitalità nelle case. La maggior parte è gente affluita dalle colonie sparse in tutto il mondo. «Gli uni li ha spinti l'ambizione, altri gli obblighi di una funzione pubblica, altri l'incarico di un'ambasceria, altri la lussuriosa ricerca di un luogo adatto perché pieno di vizi, altri il desiderio degli studi liberali, altri gli spettacoli. Alcuni li ha attratti l'amicizia, altri la volontà di trovare uno spazio dove poter esprimere le proprie capacità. Alcuni sono giunti per mettere in vendita la bellezza, altri l'eloquenza. Ogni genere d'individui è accorso in questa città che paga ad alto prezzo i vizi e le virtù. Chiamali, e chiedi a ciascuno: "da dove vieni?". Vedrai che la maggior parte ha abbandonato la patria per venire a Roma, la città più grande e bella del mondo, che tuttavia non è la loro». Se i fondatori della città avessero potuto ascoltare le parole di Seneca, avrebbero saputo che la profezia di Romolo si era avverata. Sette secoli prima infatti, secondo il racconto tramandato da Tito Livio, il primo re di Roma era apparso dopo la morte a un testimone e gli aveva detto: «Va' e annuncia ai romani che gli dei vogliono che la mia Roma sia la capitale del mondo. Perciò coltivino l'arte militare e sappiano, e anche ai posteri tramandino, che nessuna potenza umana potrà resistere alle armi dei romani». Roma fu di fatto «caput mundi» fino alla caduta dell'impero d'Occidente, ma simbolicamente lo è rimasta per sempre. Come è riuscita a realizzare un progetto tanto ambizioso? Andrea Giardina ha pensato di raccontarlo con questa mostra che ha curato insieme a Fabrizio Pesando. «Volevo innanzitutto correggere una visione sbagliata della potenza romana, trasmessa al grande pubblico prima dai dipinti e dai bestseller ottocenteschi con le loro scene di "crudeltà romana", poi dai kolossal cinematografici del Secondo dopoguerra, in cui i romani e i loro imperatori venivano assimilati ai nazisti e ai fascisti, a Hitler e Mussolini. Volevo spezzare questa simmetria tra Roma e violenza, che ancora oggi prevale nell'immaginazione collettiva». Secondo Giardina, Roma raggiunse la sua potenza non solo con il dominio delle armi, ma anche con la capacità di integrare i vinti. E l'esposizione, che si snoda tra il Colosseo, la Curia Iulia e il tempio del Divo Romolo nel Foro romano, vuole mettere in risalto le «armoniche contraddizioni» di una storia unica per ricchezza e varietà. Attraverso un centinaio di opere tra sculture, rilievi, mosaici, affreschi, bronzi e monete si narrano i due volti di Roma «caput mundi». Da una parte gli aspetti più brutali del dominio romano: le guerre di rapina, la schiavitù, le sofferenze inferte a intere comunità. Dall'altra, una politica dell'integrazione che non trova riscontri in nessun altro periodo storico: i romani ritenevano irrilevante la purezza della stirpe, concedevano facilmente la cittadinanza, liberavano gli schiavi e i figli di questi ultimi erano considerati cittadini di pieno diritto. Roma diventò pian piano una «città aperta», dove anche un cittadino di umili origini, o straniero, poteva diventare imperatore. Era sabino Numa, etrusco Tarquinio Prisco, forse figlio di una schiava Servio Tullio. Erano spagnoli Traiano, Adriano e Marco Aurelio, africani Settimio Severo e Caracalla, addirittura di origini barbare Massimino il Trace. L'inizio di questo processo di apertura è documentato all'ingresso della mostra, nella Curia. Qui l'imperatore Claudio, nel 48 d. C., tenne un'orazione per convincere i senatori ad accogliere tra i loro ranghi alcuni notabili delle province della Gallia Transalpina. E qui è stata esposta l'epigrafe che contiene una parte del discorso autentico di Claudio, mentre un'installazione presenta il testo completo, in latino e in italiano. Accanto all'epigrafe, il papiro contenente un frammento dell'editto con cui Caracalla concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'impero.

mercoledì 17 ottobre 2012

Ma l’Impero caduto colpisce ancora. L’Urbe usata da re, dittatori e, infine, dai registi

La Repubblica, 10.10.2012
Ma l’Impero caduto colpisce ancora. L’Urbe usata da re, dittatori e, infine, dai registi
Marino Niola

Roma è l’esempio di quel che accade quando i monumenti di una città durano troppo a lungo. Nel geniale paradosso di Andy Warhol c’è la chiave del mito della città eterna. Un mito senza data di scadenza, proprio come le sue rovine. Che alimentano da tempi immemorabili l’immaginario del mondo. Facendo del Colosseo e delle Terme di Caracalla, dei Fori e di Ponte Milvio, del Campidoglio e della Domus Aurea altrettanti luoghi dell’anima. Si può dire che, ancor più di Roma in sé, a produrre da sempre mitologia sia Roma in noi. È dalla fondazione della città, nata dal duello mortale tra i fratelli coltelli Romolo e Remo, che i colli fatali dell’Urbe diventano lo sfondo che dà senso alle diverse vicende degli uomini e delle nazioni. Grandezza e decadenza, virtù e vizi, sobrietà e corruzione, democrazia e tirannide, repubbliche e imperi. Opposti che trovano nella romanità una coincidenza. E nelle sue rovine un’allegoria dai mille significati. Forse perché, come diceva Goethe, quelle vestigia sono di una magnificenza e di uno sfacelo tanto straordinari da diventare entrambi emblematici. Ecco perché il cristallo capitolino non ha mai smesso di brillare e proietta i suoi bagliori fino a noi. Già da quando i Visigoti di Alarico mettono a sacco la città nel 410 dopo Cristo scrivendo la parola fine sul dominio imperiale quirita. Ma come è noto, l’impero colpisce ancora. E comincia a farlo da subito trasferendosi armi e bagagli in Oriente, nella Costantinopoli di Giustiniano, il sovrano illuminato che prende in mano la grande eredità giuridica latina e regala al mondo quel corpus iuris che è la base dei diritti moderni. Insomma, Roma è il mito politico per eccellenza, buono per tutte le stagioni, da Cesare a Mussolini. Non a caso l’astuto Carlo Magno, re dei Franchi, si fa incoronare imperatore del Sacro romano impero proprio nella chiesa di San Pietro, la notte di Natale dell’800 dopo Cristo. E la stessa cosa faranno gli imperatori di Germania, in primis Federico II, dopo il fatidico giro di boa dell’anno Mille che chiude la lunga notte del Medioevo barbarico e inaugura l’attesa della rinascita umanistica. Che avviene sotto il segno di una Roma dalla doppia anima. Che mette insieme la sua nascita pagana e la sua rinascita cristiana. L’uccisione di Remo che fonda la città e il martirio di Pietro che la rifonda. Con il papa che prende il posto dell’imperatore. Il cristianesimo insomma cambia l’immagine della città, da caput mundi a caput ecclesiae. Traducendo in termini nuovi il destino universalista che lega a doppio filo l’urbe e l’orbe. Roma è un sogno che la chiesa custodisce tenacemente. Sono parole di Leo Longanesi che riecheggiano alla grande nelle oniriche sagome cardinalizie che attraversano il cinema di Fellini. Ed è proprio il grande schermo a rimettere in moto la macchina del mito romano. Con capolavori come Ben Hur e Quo vadis?, kolossal hollywoodiani in cui l’America vittoriosa nella seconda guerra mondiale si identifica con i martiri cristiani vittime del dispotismo pagano. Rappresentato da un Nerone in camicia nera che si gode cantando lo spettacolo di Roma in fiamme. L’allusione alla romanità fascista non poteva essere più chiara. Come dice Andrea Giardina nel suo bellissimo libro su Roma dopo Roma, sarà proprio il generale Clark, capo dell’esercito di liberazione, a mettersi nei panni di Cesare entrando da trionfatore in Roma dall’Appia antica. Senza trascurare di fermarsi ad ammirare i monumenti che la punteggiano. È la città aperta che inizia la sua conversione in mito turistico. Final destination delle vacanze romane.

lunedì 15 ottobre 2012

Caput Mundi. La storia dell’Urbe tra dominio e integrazione raccontata in un’esposizione allestita al Colosseo e al Foro romano. Il destino di Roma città aperta racchiuso nel mito di Romolo

La Repubblica, 10.10.2012
Caput Mundi. La storia dell’Urbe tra dominio e integrazione raccontata in un’esposizione allestita al Colosseo e al Foro romano. Il destino di Roma città aperta racchiuso nel mito di Romolo
Maurizio Bettini

Quintiliano afferma che «l’antichità produce molta autorità, come accade a coloro che si dice siano nati dalla terra». Ecco un genere di auctoritas che i Romani non si sono mai sognati di reclamare. Al contrario, nel latino colloquiale l’espressione “nato dalla terra” veniva usata per indicare un individuo di nessuna importanza, un “figlio di nessuno”, come diremmo noi. Di sicuro gli Ateniesi, che si volevano nati direttamente dal suolo dell’Attica (fieri della loro “autoctonia”, come la chiamavano), non avrebbero apprezzato questo modo di dire. Lungi dal dichiarare di essere nati dalla terra laziale, i Romani preferivano descriversi come discendenti di un gruppo di Troiani che si erano fusi con la popolazione laziale, secondo la versione del mito resa celebre da Virgilio; in seguito questi discendenti di matrimoni misti avevano fondato prima la città di Lavinium, poi quella di Alba Longa. Dopo di che, da Alba due gemelli si erano a loro volta staccati per fondare una nuova città, Roma – ma solo per popolarla di uomini venuti a loro volta da ogni parte, proclamando apertamente che la nuova città aveva natura di asylum. «Dalle popolazioni vicine » scriveva Livio «confluì una turba indiscriminata – non importava se fossero liberi o schiavi – gente bramosa di novità, e questo fu il nerbo della futura grandezza». Il nerbo della magnitudo romana – quella “grandezza” che per i Romani corrisponde alla loro stessa identità – si fonda sulla commistione di uomini venuti da fuori. Roma è già ai suoi albori una città aperta. Ora una mostra parte dal mito fondativo della città per ripercorrerne le tappe, dalla conquista dell’Italia, all’espandersi del potere nelle province più lontane, fino alla creazione di quello straordinario melting pot religioso e culturale che è stato l’Impero. Roma caput mundi. Una città tra dominio e integrazione, (promossa dalla Soprintendenza ai Beni archeologici, curata da Andrea Giardina e Fabrizio Pesando) attraverso un centinaio tra sculture, bassorilievi, mosaici, calchi, suppellettili, racconta l’unicum che fu l’avventura di Roma nella storia. La mostra si articola in tre sedi espositive: il Colosseo, la Curia Iulia e il Tempio del Divo Romolo nel Foro romano, che ospita un’interessante appendice dedicata al mito moderno della città: dall’uso politico che ne fecero le rivoluzioni e le dittature, all’uso spettacolare che ne fece il cinema. Ma in che modo i Romani immaginarono il momento cruciale della propria origine, la fondazione della città? Ce lo racconta Plutarco. Dunque Romolo «scavò una fossa di forma circolare nel luogo dove sta ora il Comitium, in cui furono deposte le offerte di tutto ciò che è bello secondo la consuetudine e di tutto ciò che è necessario secondo la natura. Poi ciascuno gettò nella fossa una porzione della terra da cui proveniva, dopo di che le mescolarono. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, cioè mundus. In seguito, prendendo questa fossa come centro tracciarono in cerchio il perimetro della città. Il fondatore attaccò al suo aratro un vomere di bronzo, vi aggiogò un toro e una vacca, ed egli stesso li conduceva, tracciando un solco profondo secondo la linea dei termini… Con questa linea definiscono il perimetro del muro, e la parte che sta dietro o dopo il muro viene chiamata per sincope pomoerium». Inutile dire che la fossa scavata da Romolo, il mundus, è caricata di un grande significato. In essa vengono infatti gettati sia prodotti della cultura (la “consuetudine”), sia prodotti della natura, a significare la creazione di una nuova civiltà. Inoltre in questa fossa vengono gettate zolle tratte dalle rispettive terre patrie di coloro che si sono uniti a Romolo. Questo rimescolamento di terre venute da lontano, e fuse con il suolo laziale, rispecchia perfettamente il rimescolamento di uomini che caratterizza l’asylum. Accogliendo zolle tratte da altri territori, il suolo della città diventa specchio degli uomini che lo calpestano, terra “mescolata” così come “mescolati” sono i futuri abitanti della città. È evidente che questa rappresentazione ha un forte significato politico. Descrivendo la nascita della città come un rimescolamento di terre disparate e come una fusione di uomini dalle origini altrettanto disparate, i Romani mettono in evidenza uno dei caratteri principali della loro cultura: ossia l’apertura verso gli altri. Non a caso Roma è una città in cui non solo gli stranieri, ma perfino gli schiavi possono ottenere la cittadinanza. Naturalmente, l’altra faccia della medaglia è la volontà di potenza dell’urbe: e il suo destino è ben racchiuso nel celebre verso virgiliano che la descrive come «città destinata a parcere subiectis et debellare superbos». Lo cita la soprintendente Mariarosaria Barbera nel catalogo Electa, aggiungendo che «alcuni secoli più tardi, all’indomani del terribile sacco di Alarico, Rutilio Namaziano ricorda la stupefacente capacità di amalgamare popoli e civiltà (fecisti patriam diversis de gentibus unam). Tale doppia natura emerge chiarissima nel confronto tra il concetto di “patria comune a tutta la terra”, proposto dal retore Elio Aristide; e quello, assai più famoso, del “deserto che [i Romani massacratori] chiamano pace”, riportato da Tacito nel celebre discorso antiromano del capo Britanno Calgaco (Agricola 30)». In mostra è testimoniato un passaggio chiave del sistema Roma: quello che i curatori chiamano “Il manifesto dell’integrazione romana” e cioè il discorso che l’imperatore Claudio fece perché il Senato ammettesse i maggiorenti delle tre Gallie. La lapide dell’orazione e la scultura dell’imperatore (proveniente dall’Archeologico di Napoli) sono esposti nella Curia Iulia. Ma torniamo alla fossa scavata da Romolo al centro della fondazione: la cosa interessante è che porta il nome di mundus, cioè “mondo”. D’altronde gli autori romani, per esempio, sottolineano con una certa enfasi il carattere di orbis, di “cerchio”, che caratterizza il tracciato di fondazione; e anzi mettono in risonanza questa parola con il termine urbs, quasi che il cerchio / orbis e la città / urbs fossero la stessa cosa. Ma orbis non è forse la parola che designa anche l’orbis terrarum, il mondo intero? A questo punto, però, la cosa migliore è tornare a quella fascia circolare, chiamata pomoerium, che secondo il racconto di Plutarco corrispondeva direttamente al tracciato del solco scavato da Romolo. La cultura romana attribuiva una grande importanza al pomoerium. Questa zona costituiva il confine religioso della città, con particolare riferimento al rapporto fra le attività militari e quelle civili. La cosa interessante però è che, secondo “un costume antico”, come lo definisce Tacito, il comandante che aveva ampliato i confini dell’impero aveva il potere di ampliare anche quelli del pomoerium: tanto che «il pomoerium si ampliò in proporzione alla fortuna di Roma». Dunque il pomoerium è messo direttamente in corrispondenza con i confini dell’impero. Nella concezione romana, marcando il pomoeriumRomolo anticipa, o meglio pre-disegna anche lo spazio esterno di cui i Romani, in proporzione alla loro crescente fortuna, sono destinati a impadronirsi. Questo rapporto scalare fra pomoerium da un lato, e terre conquistate dall’altro, fa probabilmente da sfondo a certe dichiarazioni dei poeti augustei secondo cui la Urbs romana si identifica davvero con l’orbis terrarum. Basterà citare questo distico di Ovidio: «ad altre genti è data una terra segnata da un limite certo: ma lo spazio dell’Urbsromana è lo stesso dell’orbis».
Informazioni utili
“Roma Caput Mundi - Una città tra dominio e integrazione”, Colosseo - Foro romano, Roma, fino al 10 marzo 2013. Promossa dalla Soprintendenza dei Beni archeologici, a cura di Andrea Giardina e Fabrizio Pesando. Orari: dalle 8.30 a un’ora prima del tramonto. Ingresso: 12 euro; ridotto 7,50. Con il biglietto si accede al Colosseo, al Foro romano e al Palatino. Biglietti su www.coopculture.it. L’app iMiBAC Top 40 permette l’acquisto con smartphone. Informazioni: 06-39967700. Catalogo: Electa

domenica 14 ottobre 2012

“Giulio Cesare ucciso alla fermata del tram” gli archeologi svelano il luogo della congiura

La Repubblica 13.10.2012
“Giulio Cesare ucciso alla fermata del tram” gli archeologi svelano il luogo della congiura
“Morì aLargo Argentina”. Lì c’era la Curia di Pompeo. Oggi il capolinea dell’8
Cinzia Dal Maso

ROMA — Dicono che in un primo momento Giulio Cesare abbia cercato di difendersi, alzandosi dalla sedia dov’era seduto e gridando. Poi però, visto che nessun senatore si levava a difenderlo ma tutti fuggivano terrorizzati, si avvolse tutto nella sua toga e si lasciò trafiggere da ventitré pugnalate senza un lamento. Cadde così il grande dittatore, il 15 giorno delle Idi di marzo dell’anno 44 a. C. E ora Antonio Monterroso, archeologo del Consiglio nazionale per le ricerche spagnolo, dice di aver individuato il luogo esatto dell’assassinio. L’edificio lo conosciamo da tempo: è la cosiddetta “Curia di Pompeo” che faceva parte di un grandioso complesso fatto costruire da Gneo Pompeo nel 55 a. C. e comprendente un teatro, un enorme portico rettangolare addossato al teatro e, al centro di uno dei lati del portico, la Curia. La sua parte estrema si vede ancora oggi nell’Area sacra di Largo Argentina: è un grande podio che sta proprio alle spalle del tempio circolare, mentre il resto dell’edificio è coperto dalla strada moderna e dal settecentesco teatro Argentina. Indagini di anni passati ci hanno restituito un’immagine abbastanza dettagliata di com’era fatta, ma mai nessuno prima d’ora si era posto il problema di capire in quale punto esatto dell’edificio Cesare spirò. Forse perché in parte già si sapeva. Gli storici antichi dicono infatti che, dopo essersi alzato dalla sedia, Cesare si mosse verso uno slargo davanti alla statua di Pompeo, e lì i congiurati lo accerchiarono con le spade in mano. Anche la statua è giunta fino a noi ed è conservata nel vicino palazzo Spada. Tutto fila, dunque. E la dichiarazione di Monterroso che dice «fino a oggi non avevamo trovato nessuna prova materiale dell’evento» non è proprio del tutto veritiera: abbiamo la statua. Monterroso dice però di aver identificato una struttura di cemento larga tre metri e alta due, che sarebbe una sorta di Memoriale eretto anni dopo da Ottaviano Augusto per condannare il feroce assassinio. «Le fonti dicono che il luogo esatto dove Cesare cadde fu racchiuso in una struttura rettangolare colmata di cemento», continua Monterroso. E secondo lui questa struttura sarebbe da decenni davanti ai nostri occhi perché sarebbe una parte di quel podio che si ammira tra gli edifici dell’Area sacra di Largo Argentina. Monterroso ha studiato per anni il teatro di Pompeo e ora sta ampliando le sue ricerche agli altri edifici del complesso. Il suo annuncio odierno, per quanto affascinante, richiederebbe qualche prova in più per convincere. Ma ha comunque il merito di riportare l’attenzione pubblica su un luogo importantissimo dell’antica Roma ma trascurato. Poche persone oggi, mentre vanno a teatro o pigliano il tram lì di fronte, ricordano che proprio in quel luogo si consumò uno degli eventi più decisivi della storia della romanità. Un evento che affascina da sempre, che ha ispirato la grande tragedia di Shakespeare come i film ispirati all’antica Roma e persino il recentissimo “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani. Magari Monterroso riuscirà ad ancorare l’immaginario storico alla realtà.

“È una tesi che ha bisogno di prove ora bisogna cercare sotto le rotaie

La Repubblica, 13.10.2012
Andrea Carandini, autore dell’Atlante di Roma antica:
“Vorrei far vedere tutto ai turisti”
“È una tesi che ha bisogno di prove ora bisogna cercare sotto le rotaie”

ROMA - L’archeologo Andrea Carandini, che ha di recente pubblicato il monumentale Atlante di Roma antica, frutto di decenni di lavoro di un’équipe nutritissima di studiosi, è perplesso di fronte alla notizia della scoperta del luogo dell’assassinio di Giulio Cesare. “Io sono come Tommaso — dice — e quel podio lo devo vedere bene prima di giudicare”. Ma sappiamo com’era fatta esattamente la Curia? «Certo, è tutta ricostruita, basta guardare l’Atlante. Sono stati trovati frammenti di murature che ci hanno consentito di disegnare le dimensioni esatte dell’edificio. Si è trovato poi un muro parallelo a un lato dell’edificio che era forse la fondazione di una fila di colonne, per cui pensiamo che la curia fosse probabilmente affiancata da un portico. Si sono trovati persino i resti di una nicchia, che con molta probabilità ospitava la statua di Pompeo. Come vede, non c’è molto altro da dire». La nicchia però è nella parte della Curia che oggi non è a cielo aperto, mentre Monterroso parla di un memoriale di cemento nell’Area sacra. «Io mi fido dei testi antichi che parlano di assassinio di fronte alla statua di Pompeo. Se Monterroso non porta prove più convincenti, per me il caso è chiuso». Lei crede dunque che non sia necessario indagare ancora? «Merita sempre indagare e capire sempre meglio. Anzi, proprio ora che si sta per spostare il capolinea del tram, e sono in programma lavori ingenti nell’area, potrebbe essere il momento propizio per effettuare delle ricerche almeno nel terrapieno sotto il capolinea. Poi si potrebbe ricoprire il tutto e consentire ai turisti di visitare la curia entrando dall’Area sacra, in grotta. Sarebbe affascinante per tutti, e renderebbe giustizia a Cesare». (c. d. m.)