lunedì 31 dicembre 2012

Pozzuoli, patto per riaprire il Flavio ma l'Arco Felice cade a pezzi

Pozzuoli, patto per riaprire il Flavio ma l'Arco Felice cade a pezzi
Nello Mazzone
Il Mattino, Napoli 17/11/2012
Volontari e dipendenti comunali saranno custodi
Calcinacci e colpi di pistola
Figliolia: con la Soprintendenza collaborazione da rafforzare

POZZUOLI. Porte aperte per il patrimonio archeologico negato: il Comune ha firmato un accordo con soprintendenza e ministero per consentire l'apertura dell'Anfiteatro Flavio e dei siti attualmente chiusi dello Stadio di Antonino Pio, del Tempio di Serapide e, in prospettiva, del percorso archeologico Rione Terra mentre l'Arco Felice Vecchio cade a pezzi e la sua targa illustrativa viene bersagliata da colpi di pistola, sparati forse da camorristi locali che si sono sfidati tra di loro. L'impegno formale dell'amministrazione flegrea a riaprire i tesori sotto chiave è stato confermato dal sottosegretario di Stato ai Beni culturali, Roberto Cecchi, e ufficializzato ieri dal sindaco Vincenzo Figliolia nel workshop alla Borsa del turismo archeologico di Paestum. «La soprintendenza di Napoli e Pompei ha rafforzato i contatti con la neoeletta amministrazione comunale di Pozzuoli, che a sua volta ha già preso opportuni contatti con il segretariato generale del Mibac per istituire un tavolo tecnico permanente - ha detto Cecchi in Aula, a nome del governo, rispondendo all'interrogazione parlamentare della senatrice Diana De Feo - per affrontare la questione di un rilancio socioeconomico dell'intera area flegrea, attraverso un progetto di ampio respiro culturale». II Flavio (attualmente aperto solo di mattina) e i siti off-limits del Serapeo e di Antonino Pio torneranno visitabili grazie al «prestito» di dipendenti comunali, debitamente formati dalla soprintendenza. Spazio anche ai volontari delle associazioni. Dettagli da definire nei prossimi giorni. «II Comune assume un concreto e diretto impegno per assicurare l'apertura al pubblico dei siti archeologici maggiori - ha detto Figliolia a Paestum - con il dovuto decoro anche dei siti minori. Collaborazione con la soprintendenza da rafforzare e da estendere anche al percorso archeologico del Rione Terra. Pozzuoli vuole riappropriarsi dei suoi reperti archeologici più significativi, come la statua del dio Serapide, esponendoli nel museo dell'acropoli». Ma il patrimonio archeologico flegreo cade letteralmente a pezzi. Ennesimo allarme: da settimane l'Arco Felice Vecchio, monumento del I secolo d.C., è imbracato da reti protettive d'acciaio per la caduta continua di calcinacci e pezzi di opus latericium. Micro crolli continui, con i calcinacci che si sono depositati nelle reti protettive, mentre ignoti hanno usato la targa di presentazione del sito come bersaglio, forandola con 5 colpi di pistola. È stata una gara tra balordi armati o sono stati i piccioni del clan locale ad allenarsi al tiro al bersaglio sotto l'Arco romano? Esempio, in ogni caso, dell'ennesimo scempio e stamani il leader dei Verdi Angelo Bonelli con Francesco Borrelli terrà un sit -in di protesta dinanzi all'Anfiteatro.

domenica 30 dicembre 2012

Il gladiatore salvato dagli stranieri

Il gladiatore salvato dagli stranieri
G.G.
Il Fatto Quotidiano.
28/12/2012
 
Da Le Monde al Times di Londra, fra i primi, non c'è testata di prestigio che non abbia metaforicamente visitato, in questi giorni, la tomba del Gladiatore, contribuendo, con il suo interessamento, a evitare l'ennesimo triste destino d'un bene culturale italiano. Per l'inverno, il pericolo è sventato. In primavera, chi verrà (al governo) vedrà e, magari, provvederà. Ad accendere la miccia dell'attenzione mondiale, è stato l'impegno di Russell Crowe, il 'gladiatore' per antonomasia, da quando al cinema ha vestito i panni di Maximus Decimus Meridius: l'attore, con una presa di posizione universalmente ripresa, s'è detto "pronto a combattere" per la tomba del generale che avrebbe ispirato il suo personaggio. la tomba di Marcus Nonius Macrinus, proconsole dell'imperatore Marco Aurelio, "spettacolare mausoleo di marmo", scoperto nel 2008 sepolto nel fango in una zona industriale alla periferia nord di Roma, doveva essere re-interrato in mancanza di fondi per la manutenzione. "Fra tutte le grandi nazioni del mondo, l'Italia dovrebbe essere una guida nel promuovere l'importanza di esplorare e conservare il passato antico", ha detto l'attore. Come il personaggio del film di Scott, Marcus Nonius divenne celebre combattendo i germani. Ma la somiglianza con Maximus Decimus si ferma qui, notava il Times: non risulta che il generale sia stato venduto come schiavo e sia poi tornato a Roma da gladiatore. II mausoleo è stato preservato per 1.800 anni perché coperto dal fango del Tevere. Ha fatto breccia sulla stampa estera l'amarezza di Maria Rosa Barbera, sovrintendente ai Beni archeologici: "Ho la sensazione che la sorte del mausoleo sarebbe stata diversa se fosse stato trovato nei dintorni di Berlino, Parigi o Washington", ha detto.

lunedì 17 dicembre 2012

Nave di Marausa, ultimato il restauro dei legni

Nave di Marausa, ultimato il restauro dei legni
LA SICILIA, Domenica 04 Novembre 2012

Quasi completato, al laboratorio «Legni e segni della memoria» di Giovanni Gallo, a Salerno, il lavoro di restauro e conservazione dei legni del relitto della nave tardo romana recuperata negli anni scorsi dai fondali antistanti il litorale di Marausa che era stata realizzata con la tecnica di costruzione a guscio portante e che doveva essere lunga 8 metri e larga 15 metri.
Per rendersi personalmente conto di come stanno proseguendo i lavori martedì scorso a Salerno si sono recati il soprintendente del Mare, Sebastiano Tusa e Alessandro Urbano che hanno accertato che è stato eseguito già l'80 per cento del trattamento sui fasciami di legno. In particolare è stata quasi del tutto completata la fase di pulitura, debatterizzazione, impregnazione dei legni con carboidrati a catena modificata (farina di riso) ed essiccazione a vuoto discontinuo. Attualmente la maggior parte dei legni del relitto si trova in una camera climatizzata dove sta subendo il processo finale di stabilizzazione.
Inoltre, è stata effettuata una campionatura per le analisi al radiocarbonio che dovranno dare la datazione certa della realizzazione del relitto. Per fare ciò nei legni più spessi sono stati prelevati campioni ogni venti anelli in modo di avere datazioni verificabili con la dendrocronologia.
"Questo procedimento - spiega una nota della Soprintendenza del Mare -, a differenza dagli altri protocolli utilizzati attualmente, presenta notevoli vantaggi rendendo il legno estremamente resistente ai condizionamenti climatici in fase di musealizzazione. Ha inoltre il pregio di mantenere integri i valori cromatici del legno dando un aspetto più gradevole e fedele all'originale. In particolare le essenze del relitto sono larice per il fasciame e frassino per la chiglia e le ordinate".
Al momento del recupero del relitto all'interno dello scafo vennero trovate diverse tipologie di anfore africane chiuse da tappi di sughero e utilizzate per il trasporto di frutta secca (pinoli, nocciole, mandorle, pesche, fichi secchi), olive e con ogni probabilità anche di olio, vino e salsa di pesce o garum, così come testimonierebbe la presenza di un tipo di resina all'interno dei contenitori. Vi erano inoltre contenitori in ceramica e vetro. Lo scafo era ben conservato soprattutto nella parte centrale, mentre soprattutto le ordinate e il fasciame esterno apparivano molto deteriorati.
Margherita Leggio

mercoledì 31 ottobre 2012

E Augusto inventò il principe nel nome della Repubblica. La campagna contro l'Egitto, capolavoro di propaganda

Corriere della Sera, 09.10.2012
E Augusto inventò il principe nel nome della Repubblica. La campagna contro l'Egitto, capolavoro di propaganda
Luciano Canfora

Gaio Ottavio, poi Gaio Giulio Cesare dopo che Cesare lo adottò come figlio (44 a. C.), vulgo Ottaviano, detto così da chi voleva rimarcare le sue origini plebee, poi Augusto, poi «divo Augusto» post mortem, era nato nell'anno del consolato di Cicerone (63 a. C.) e morì nel 14 d. C., a settantasette anni, dopo essere stato ininterrottamente al potere in varie forme, dal 43 a. C. fino alla morte, per 57 anni. È difficile trovare nella storia una carriera più lunga. Era un precoce e fu, tra i reggitori dell'impero, il più longevo. Da giovanissimo, men che diciottenne, aveva preso parte all'ultima campagna cesariana della lunga guerra civile: la pericolosa campagna di Spagna contro i figli di Pompeo, che avevano sollevato la regione, facendo leva sugli antichi legami di clientela del loro padre Pompeo Magno. La carriera di Ottaviano fu segnata da quella campagna. La sua ascesa politica incominciò allora. Può essere utile ricordare che toccò proprio a lui, molti anni dopo, completare la conquista della Spagna (26 a.C.). Ci sono grandi capi politici la cui «grandezza» risulta, nell'immagine recepita dalla tradizione e in fondo anche dalla storiografia, menomata dalla grandezza del predecessore. Ci riferiamo beninteso non già a quello che la ricerca accerta e ricolloca nella giusta dimensione attraverso un costante lavoro sui documenti, ma all'immagine consolidata: che pure ha anch'essa il suo rilievo ed è essa stessa, in certo senso, un fatto storico.Pensiamo ad Augusto alle prese con il gigantesco suo padre adottivo Giulio Cesare, pensiamo ad Adriano rispetto a Traiano(il "nuovo fondatore" dell'impero e conquistatore della Dacia, impresa pari, per durezza e durevolezza degli effetti, alla conquista cesariana della Gallia), a Costantino VII rispetto a Basilio I, a Filippo II rispetto a Carlo V, a Stalin rispetto a Lenin e così via. Lo studio della «fenomenologia del capo» meriterebbe una trattazione a parte: il «caso Augusto» è, da questo punto di vista, emblematico. Eppure la sua carriera come capoparte spregiudicato, triumviro spietato, abile artefice di una apparente «restaurazione della Repubblica» che di fatto consisteva nella creazione di una nuova forma di potere personale definibile come principato (né monarchia né libera repubblica), non deve offuscare l'opera sua di costruzione imperiale e di consolidamento e ampliamento dell'impero sul piano diplomatico e militare. Il perno di questo rinnovamento fu la guerra contro l'Egitto di Cleopatra (per parte sua sorretta dalle legioni e dall'esperienza militare di Antonio): la «guerra di Azio» (31 a. C.) seguita dalla «guerra di Alessandria», cioè dalla conquista, quasi senza colpo ferire, dell'Egitto nonostante il tentativo postremo di Cleopatra di sedurre anche il gelido Ottaviano. Si sorride di solito della scomposta esultanza di Orazio (Odi, I, 37) alla notizia della vittoria di Agrippa e di Ottaviano sulla flotta della regina che apprestava «dementes ruinas» a danno del Campidoglio. Si sorride del poeta servile che cerca di cancellare il ricordo della sua giovanile militanza repubblicana a Filippi (42 a. C.) ingigantendo il «pericolo egiziano» sventato dalla vittoria di Ottaviano ad Azio. Ma non vi è solo questo in quel celebre testo modellato sull'incipit di una altrettanto celebre poesia di Alceo. Vi è anche l'adozione del motivo principale della propaganda augustea secondo cui quella di Azio non fu l'ultimo atto della lunga guerra civile bensì una guerra esterna contro una ragguardevole potenza — l'Egitto (l'ultimo grande regno erede dell'impero di Alessandro Magno) — divenuta ancor più temibile a causa del tradimento di Antonio messosi contro Roma al servizio di una potenza straniera. E come in tutte le propagande, vi è anche un residuo di verità in una tale impostazione, giacché davvero una vittoria antoniana ad Azio avrebbe impresso una svolta all'impalcatura imperiale romana dalle conseguenze imprevedibili: ivi compresa l'adozione di un modello di regalità ellenistica che avrebbe trovato un terreno tutt'altro che sfavorevole anche nel centro del potere, e che Augusto esorcizzò e per un tempo lunghissimo rinviò grazie alla sua linea «occidentalistica» e restauratrice delle tradizioni romane, assecondata da zelanti «intellettuali organici» come il Virgilio dell'Eneide e l'indigesto Properzio del IV libro delle Elegie. La conquista dell'Egitto non solo segnò la fine della lunga scia di Alessandro Magno, ma fu il perno di un riordino dell'assetto provinciale e della distribuzione territoriale delle legioni a tutto vantaggio del princeps e a detrimento della più potente casta repubblicana, pur sempre egemone sul piano sociale, quale il Senato di Roma. Sul piano diplomatico il nuovo assetto dell'Oriente conseguente alla vittoria sull'Egitto comportava anche la determinazione di condizioni di buon vicinato col regno dei Parti. che già avevano umiliato Roma al tempo di Carre (53 a.C.) e che avevano sfondato in Siria al tempo del "protettorato" antoniano sulla pars Orientis (campagna di Ventidio: 38 a.C.). OraAugusto ottenne la simbolica restituzione delle insegne romane sottratte a Carre allo sconfitto Crasso. E la sua tela diplomatica si spinse ancora più ad oriente verso l'India. Il che giovò anche a un incremento dei commerci su quel versante (la «via della seta»). Fu nel mondo germanico che la politica imperiale di Augusto subì una pesante battuta d'arresto, con la sconfitta catastrofica di Quintilio Varo caduto in trappola nella foresta di Teutoburgo il 9 d.C., cinque anni prima della morte del princeps. Ventimila uomini massacrati sul posto e il suicidio di Varo cancellarono definitivamente l'illusione di "romanizzare" il mondo germanico. Il confine fortificato si assestò, allora, definitivamente sul Reno. Ottaviano, divenuto Augusto nel 27 a. C. nell'atto stesso di «restaurare la Repubblica», aveva conquistato diciannovenne con un colpo di Stato e marciando su Roma il massimo potere repubblicano (il consolato), dopo aver liquidato i consoli in carica nel corso del caotico epilogo della «guerra di Modena» (43 a. C.). E si è congedato dal potere e dalla vita (14 d. C.) minacciando — nei primi righi delle Res Gestae fatti leggere davanti al Senato all'indomani della sua morte— una riapertura delle guerre civili ove la torsione in senso dinastico nella «restaurata» Repubblica non fosse stata accettata dalla frastornata casta senatoria ormai priva di potere militare. Il fatto che il successore designato leggesse al Senato quelle pesanti parole con cui le Res Gestae incominciano («Ho salvato la Repubblica all'età di diciannove anni arruolando un esercito privato») non era solo una larvata minaccia: era il segno più chiaro che il princeps morente aveva designato il nuovo princeps, e che dunque un'altra forma di potere si era ormai consolidata.

sabato 27 ottobre 2012

The Lost Legions Of Varus



n the autumn of 9 AD Roman forces occupying Northern Germany were lured into a death trap. Over 20,000 of the world's most feared troops, their families, even their animals, were slaughtered by Iron Age tribes. The bloody massacre defined forever the limits of Roman expansion and left Europe fatefully divided, yet for almost 2,000 years the exact site of this disaster was only guessed at. Then, in 1987, a British soldier made a find that suggested the true whereabouts of the 'Battle of Teutoburg'. Today a grim picture of deception, ambush and ritual slaughter is beginning to emerge.

"In the autumn of A.D. 9 Varus marched his three legions from their summer camp to a winter camp further west. The army was huge, fifteen thousand men plus a train of ten thousand women, children, slaves and pack animals. The march was scheduled to take several days, over difficult terrain, and at times the column would be up to nine miles long as they wound through narrow forest tracks and ravines. Because of the fatal trust of Varus and the cunning of Arminius the Germans knew the exact route this long, lumbering army would take. Thousands of German warriors prepared the trail with trapdoors, hides and traps, and waited.

Varus' army marched without incident for the first day then, just before dusk, when the entire army was far from the safety of camp and committed to the march, the Germans sprang their trap. Small-bands of warriors burst from their hides and cut down passing Romans then melted into the forest. Spears were hurled from trees or rocky outcrops. The Romans, trained to fight in large formations in the open field, were ambushed as they milled in complete disarray. Isolated and confused, they were cut to pieces by one attack after another. For three days and three nights the Germans hunted the shattered bands of Romans to extinction, deep in the dark rain-drenched forest. There were few survivors. Some, including Varus, chose suicide rather than fall into enemy hands. It was the German practice to sacrifice their prisoners to their Druidic gods by crucifying them on sacred oak trees. After the battle the heads of the Roman dead were nailed up along the trail; all except for Varus, whose head Arminius presented to Morboduus, the King of Bohemia, in an attempt to impress him.

Legend has it that it was not until Morboduus forwarded Varus' head to the Emperor that Rome became aware of the disaster that had befallen the German garrison. Three entire legions, out of Rome's twenty-eight, were swallowed by the Teutoberg forest. But the defeat in Germany generated shockwaves far beyond the magnitude of the loss, which was smaller than Carrhae, and indeed smaller than the losses during the civil wars. Those three days in the German forest decided the course of history for millennia to come. Rome was already short of military manpower and the losses in Germany simply could not be made up. Those three legions disappeared form the roles forever and the Roman army would never again field more than twenty-five legions. As the old emperor Augustus drew near death, at the age of seventy-nine, he was seen by his servants wandering the palace weeping and crying "Quinctilius Varus give me back my legions!" The blow to Roman confidence was irreparable. In his will Augustus advised Tiberius to never again cross the Rhine -- "be satisfied with what we have and never desire to increase the size of the empire". This policy would hold until the fall of Rome."
http://www.fighttimes.com/magazine/magazine.asp?article=719

domenica 21 ottobre 2012

Roma, Romae. Il doppio volto dell'Impero

Corriere della sera, 09.10.2012
Roma, Romae. Il doppio volto dell'Impero
Accanto al dominio brutale delle armi una politica di integrazione unica
Lauretta Colonnelli

Roma agli inizi dell'Impero è descritta mirabilmente da Seneca: una città popolata da un milione di abitanti, che a malapena riescono a trovare ospitalità nelle case. La maggior parte è gente affluita dalle colonie sparse in tutto il mondo. «Gli uni li ha spinti l'ambizione, altri gli obblighi di una funzione pubblica, altri l'incarico di un'ambasceria, altri la lussuriosa ricerca di un luogo adatto perché pieno di vizi, altri il desiderio degli studi liberali, altri gli spettacoli. Alcuni li ha attratti l'amicizia, altri la volontà di trovare uno spazio dove poter esprimere le proprie capacità. Alcuni sono giunti per mettere in vendita la bellezza, altri l'eloquenza. Ogni genere d'individui è accorso in questa città che paga ad alto prezzo i vizi e le virtù. Chiamali, e chiedi a ciascuno: "da dove vieni?". Vedrai che la maggior parte ha abbandonato la patria per venire a Roma, la città più grande e bella del mondo, che tuttavia non è la loro». Se i fondatori della città avessero potuto ascoltare le parole di Seneca, avrebbero saputo che la profezia di Romolo si era avverata. Sette secoli prima infatti, secondo il racconto tramandato da Tito Livio, il primo re di Roma era apparso dopo la morte a un testimone e gli aveva detto: «Va' e annuncia ai romani che gli dei vogliono che la mia Roma sia la capitale del mondo. Perciò coltivino l'arte militare e sappiano, e anche ai posteri tramandino, che nessuna potenza umana potrà resistere alle armi dei romani». Roma fu di fatto «caput mundi» fino alla caduta dell'impero d'Occidente, ma simbolicamente lo è rimasta per sempre. Come è riuscita a realizzare un progetto tanto ambizioso? Andrea Giardina ha pensato di raccontarlo con questa mostra che ha curato insieme a Fabrizio Pesando. «Volevo innanzitutto correggere una visione sbagliata della potenza romana, trasmessa al grande pubblico prima dai dipinti e dai bestseller ottocenteschi con le loro scene di "crudeltà romana", poi dai kolossal cinematografici del Secondo dopoguerra, in cui i romani e i loro imperatori venivano assimilati ai nazisti e ai fascisti, a Hitler e Mussolini. Volevo spezzare questa simmetria tra Roma e violenza, che ancora oggi prevale nell'immaginazione collettiva». Secondo Giardina, Roma raggiunse la sua potenza non solo con il dominio delle armi, ma anche con la capacità di integrare i vinti. E l'esposizione, che si snoda tra il Colosseo, la Curia Iulia e il tempio del Divo Romolo nel Foro romano, vuole mettere in risalto le «armoniche contraddizioni» di una storia unica per ricchezza e varietà. Attraverso un centinaio di opere tra sculture, rilievi, mosaici, affreschi, bronzi e monete si narrano i due volti di Roma «caput mundi». Da una parte gli aspetti più brutali del dominio romano: le guerre di rapina, la schiavitù, le sofferenze inferte a intere comunità. Dall'altra, una politica dell'integrazione che non trova riscontri in nessun altro periodo storico: i romani ritenevano irrilevante la purezza della stirpe, concedevano facilmente la cittadinanza, liberavano gli schiavi e i figli di questi ultimi erano considerati cittadini di pieno diritto. Roma diventò pian piano una «città aperta», dove anche un cittadino di umili origini, o straniero, poteva diventare imperatore. Era sabino Numa, etrusco Tarquinio Prisco, forse figlio di una schiava Servio Tullio. Erano spagnoli Traiano, Adriano e Marco Aurelio, africani Settimio Severo e Caracalla, addirittura di origini barbare Massimino il Trace. L'inizio di questo processo di apertura è documentato all'ingresso della mostra, nella Curia. Qui l'imperatore Claudio, nel 48 d. C., tenne un'orazione per convincere i senatori ad accogliere tra i loro ranghi alcuni notabili delle province della Gallia Transalpina. E qui è stata esposta l'epigrafe che contiene una parte del discorso autentico di Claudio, mentre un'installazione presenta il testo completo, in latino e in italiano. Accanto all'epigrafe, il papiro contenente un frammento dell'editto con cui Caracalla concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'impero.

mercoledì 17 ottobre 2012

Ma l’Impero caduto colpisce ancora. L’Urbe usata da re, dittatori e, infine, dai registi

La Repubblica, 10.10.2012
Ma l’Impero caduto colpisce ancora. L’Urbe usata da re, dittatori e, infine, dai registi
Marino Niola

Roma è l’esempio di quel che accade quando i monumenti di una città durano troppo a lungo. Nel geniale paradosso di Andy Warhol c’è la chiave del mito della città eterna. Un mito senza data di scadenza, proprio come le sue rovine. Che alimentano da tempi immemorabili l’immaginario del mondo. Facendo del Colosseo e delle Terme di Caracalla, dei Fori e di Ponte Milvio, del Campidoglio e della Domus Aurea altrettanti luoghi dell’anima. Si può dire che, ancor più di Roma in sé, a produrre da sempre mitologia sia Roma in noi. È dalla fondazione della città, nata dal duello mortale tra i fratelli coltelli Romolo e Remo, che i colli fatali dell’Urbe diventano lo sfondo che dà senso alle diverse vicende degli uomini e delle nazioni. Grandezza e decadenza, virtù e vizi, sobrietà e corruzione, democrazia e tirannide, repubbliche e imperi. Opposti che trovano nella romanità una coincidenza. E nelle sue rovine un’allegoria dai mille significati. Forse perché, come diceva Goethe, quelle vestigia sono di una magnificenza e di uno sfacelo tanto straordinari da diventare entrambi emblematici. Ecco perché il cristallo capitolino non ha mai smesso di brillare e proietta i suoi bagliori fino a noi. Già da quando i Visigoti di Alarico mettono a sacco la città nel 410 dopo Cristo scrivendo la parola fine sul dominio imperiale quirita. Ma come è noto, l’impero colpisce ancora. E comincia a farlo da subito trasferendosi armi e bagagli in Oriente, nella Costantinopoli di Giustiniano, il sovrano illuminato che prende in mano la grande eredità giuridica latina e regala al mondo quel corpus iuris che è la base dei diritti moderni. Insomma, Roma è il mito politico per eccellenza, buono per tutte le stagioni, da Cesare a Mussolini. Non a caso l’astuto Carlo Magno, re dei Franchi, si fa incoronare imperatore del Sacro romano impero proprio nella chiesa di San Pietro, la notte di Natale dell’800 dopo Cristo. E la stessa cosa faranno gli imperatori di Germania, in primis Federico II, dopo il fatidico giro di boa dell’anno Mille che chiude la lunga notte del Medioevo barbarico e inaugura l’attesa della rinascita umanistica. Che avviene sotto il segno di una Roma dalla doppia anima. Che mette insieme la sua nascita pagana e la sua rinascita cristiana. L’uccisione di Remo che fonda la città e il martirio di Pietro che la rifonda. Con il papa che prende il posto dell’imperatore. Il cristianesimo insomma cambia l’immagine della città, da caput mundi a caput ecclesiae. Traducendo in termini nuovi il destino universalista che lega a doppio filo l’urbe e l’orbe. Roma è un sogno che la chiesa custodisce tenacemente. Sono parole di Leo Longanesi che riecheggiano alla grande nelle oniriche sagome cardinalizie che attraversano il cinema di Fellini. Ed è proprio il grande schermo a rimettere in moto la macchina del mito romano. Con capolavori come Ben Hur e Quo vadis?, kolossal hollywoodiani in cui l’America vittoriosa nella seconda guerra mondiale si identifica con i martiri cristiani vittime del dispotismo pagano. Rappresentato da un Nerone in camicia nera che si gode cantando lo spettacolo di Roma in fiamme. L’allusione alla romanità fascista non poteva essere più chiara. Come dice Andrea Giardina nel suo bellissimo libro su Roma dopo Roma, sarà proprio il generale Clark, capo dell’esercito di liberazione, a mettersi nei panni di Cesare entrando da trionfatore in Roma dall’Appia antica. Senza trascurare di fermarsi ad ammirare i monumenti che la punteggiano. È la città aperta che inizia la sua conversione in mito turistico. Final destination delle vacanze romane.

lunedì 15 ottobre 2012

Caput Mundi. La storia dell’Urbe tra dominio e integrazione raccontata in un’esposizione allestita al Colosseo e al Foro romano. Il destino di Roma città aperta racchiuso nel mito di Romolo

La Repubblica, 10.10.2012
Caput Mundi. La storia dell’Urbe tra dominio e integrazione raccontata in un’esposizione allestita al Colosseo e al Foro romano. Il destino di Roma città aperta racchiuso nel mito di Romolo
Maurizio Bettini

Quintiliano afferma che «l’antichità produce molta autorità, come accade a coloro che si dice siano nati dalla terra». Ecco un genere di auctoritas che i Romani non si sono mai sognati di reclamare. Al contrario, nel latino colloquiale l’espressione “nato dalla terra” veniva usata per indicare un individuo di nessuna importanza, un “figlio di nessuno”, come diremmo noi. Di sicuro gli Ateniesi, che si volevano nati direttamente dal suolo dell’Attica (fieri della loro “autoctonia”, come la chiamavano), non avrebbero apprezzato questo modo di dire. Lungi dal dichiarare di essere nati dalla terra laziale, i Romani preferivano descriversi come discendenti di un gruppo di Troiani che si erano fusi con la popolazione laziale, secondo la versione del mito resa celebre da Virgilio; in seguito questi discendenti di matrimoni misti avevano fondato prima la città di Lavinium, poi quella di Alba Longa. Dopo di che, da Alba due gemelli si erano a loro volta staccati per fondare una nuova città, Roma – ma solo per popolarla di uomini venuti a loro volta da ogni parte, proclamando apertamente che la nuova città aveva natura di asylum. «Dalle popolazioni vicine » scriveva Livio «confluì una turba indiscriminata – non importava se fossero liberi o schiavi – gente bramosa di novità, e questo fu il nerbo della futura grandezza». Il nerbo della magnitudo romana – quella “grandezza” che per i Romani corrisponde alla loro stessa identità – si fonda sulla commistione di uomini venuti da fuori. Roma è già ai suoi albori una città aperta. Ora una mostra parte dal mito fondativo della città per ripercorrerne le tappe, dalla conquista dell’Italia, all’espandersi del potere nelle province più lontane, fino alla creazione di quello straordinario melting pot religioso e culturale che è stato l’Impero. Roma caput mundi. Una città tra dominio e integrazione, (promossa dalla Soprintendenza ai Beni archeologici, curata da Andrea Giardina e Fabrizio Pesando) attraverso un centinaio tra sculture, bassorilievi, mosaici, calchi, suppellettili, racconta l’unicum che fu l’avventura di Roma nella storia. La mostra si articola in tre sedi espositive: il Colosseo, la Curia Iulia e il Tempio del Divo Romolo nel Foro romano, che ospita un’interessante appendice dedicata al mito moderno della città: dall’uso politico che ne fecero le rivoluzioni e le dittature, all’uso spettacolare che ne fece il cinema. Ma in che modo i Romani immaginarono il momento cruciale della propria origine, la fondazione della città? Ce lo racconta Plutarco. Dunque Romolo «scavò una fossa di forma circolare nel luogo dove sta ora il Comitium, in cui furono deposte le offerte di tutto ciò che è bello secondo la consuetudine e di tutto ciò che è necessario secondo la natura. Poi ciascuno gettò nella fossa una porzione della terra da cui proveniva, dopo di che le mescolarono. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, cioè mundus. In seguito, prendendo questa fossa come centro tracciarono in cerchio il perimetro della città. Il fondatore attaccò al suo aratro un vomere di bronzo, vi aggiogò un toro e una vacca, ed egli stesso li conduceva, tracciando un solco profondo secondo la linea dei termini… Con questa linea definiscono il perimetro del muro, e la parte che sta dietro o dopo il muro viene chiamata per sincope pomoerium». Inutile dire che la fossa scavata da Romolo, il mundus, è caricata di un grande significato. In essa vengono infatti gettati sia prodotti della cultura (la “consuetudine”), sia prodotti della natura, a significare la creazione di una nuova civiltà. Inoltre in questa fossa vengono gettate zolle tratte dalle rispettive terre patrie di coloro che si sono uniti a Romolo. Questo rimescolamento di terre venute da lontano, e fuse con il suolo laziale, rispecchia perfettamente il rimescolamento di uomini che caratterizza l’asylum. Accogliendo zolle tratte da altri territori, il suolo della città diventa specchio degli uomini che lo calpestano, terra “mescolata” così come “mescolati” sono i futuri abitanti della città. È evidente che questa rappresentazione ha un forte significato politico. Descrivendo la nascita della città come un rimescolamento di terre disparate e come una fusione di uomini dalle origini altrettanto disparate, i Romani mettono in evidenza uno dei caratteri principali della loro cultura: ossia l’apertura verso gli altri. Non a caso Roma è una città in cui non solo gli stranieri, ma perfino gli schiavi possono ottenere la cittadinanza. Naturalmente, l’altra faccia della medaglia è la volontà di potenza dell’urbe: e il suo destino è ben racchiuso nel celebre verso virgiliano che la descrive come «città destinata a parcere subiectis et debellare superbos». Lo cita la soprintendente Mariarosaria Barbera nel catalogo Electa, aggiungendo che «alcuni secoli più tardi, all’indomani del terribile sacco di Alarico, Rutilio Namaziano ricorda la stupefacente capacità di amalgamare popoli e civiltà (fecisti patriam diversis de gentibus unam). Tale doppia natura emerge chiarissima nel confronto tra il concetto di “patria comune a tutta la terra”, proposto dal retore Elio Aristide; e quello, assai più famoso, del “deserto che [i Romani massacratori] chiamano pace”, riportato da Tacito nel celebre discorso antiromano del capo Britanno Calgaco (Agricola 30)». In mostra è testimoniato un passaggio chiave del sistema Roma: quello che i curatori chiamano “Il manifesto dell’integrazione romana” e cioè il discorso che l’imperatore Claudio fece perché il Senato ammettesse i maggiorenti delle tre Gallie. La lapide dell’orazione e la scultura dell’imperatore (proveniente dall’Archeologico di Napoli) sono esposti nella Curia Iulia. Ma torniamo alla fossa scavata da Romolo al centro della fondazione: la cosa interessante è che porta il nome di mundus, cioè “mondo”. D’altronde gli autori romani, per esempio, sottolineano con una certa enfasi il carattere di orbis, di “cerchio”, che caratterizza il tracciato di fondazione; e anzi mettono in risonanza questa parola con il termine urbs, quasi che il cerchio / orbis e la città / urbs fossero la stessa cosa. Ma orbis non è forse la parola che designa anche l’orbis terrarum, il mondo intero? A questo punto, però, la cosa migliore è tornare a quella fascia circolare, chiamata pomoerium, che secondo il racconto di Plutarco corrispondeva direttamente al tracciato del solco scavato da Romolo. La cultura romana attribuiva una grande importanza al pomoerium. Questa zona costituiva il confine religioso della città, con particolare riferimento al rapporto fra le attività militari e quelle civili. La cosa interessante però è che, secondo “un costume antico”, come lo definisce Tacito, il comandante che aveva ampliato i confini dell’impero aveva il potere di ampliare anche quelli del pomoerium: tanto che «il pomoerium si ampliò in proporzione alla fortuna di Roma». Dunque il pomoerium è messo direttamente in corrispondenza con i confini dell’impero. Nella concezione romana, marcando il pomoeriumRomolo anticipa, o meglio pre-disegna anche lo spazio esterno di cui i Romani, in proporzione alla loro crescente fortuna, sono destinati a impadronirsi. Questo rapporto scalare fra pomoerium da un lato, e terre conquistate dall’altro, fa probabilmente da sfondo a certe dichiarazioni dei poeti augustei secondo cui la Urbs romana si identifica davvero con l’orbis terrarum. Basterà citare questo distico di Ovidio: «ad altre genti è data una terra segnata da un limite certo: ma lo spazio dell’Urbsromana è lo stesso dell’orbis».
Informazioni utili
“Roma Caput Mundi - Una città tra dominio e integrazione”, Colosseo - Foro romano, Roma, fino al 10 marzo 2013. Promossa dalla Soprintendenza dei Beni archeologici, a cura di Andrea Giardina e Fabrizio Pesando. Orari: dalle 8.30 a un’ora prima del tramonto. Ingresso: 12 euro; ridotto 7,50. Con il biglietto si accede al Colosseo, al Foro romano e al Palatino. Biglietti su www.coopculture.it. L’app iMiBAC Top 40 permette l’acquisto con smartphone. Informazioni: 06-39967700. Catalogo: Electa

domenica 14 ottobre 2012

“Giulio Cesare ucciso alla fermata del tram” gli archeologi svelano il luogo della congiura

La Repubblica 13.10.2012
“Giulio Cesare ucciso alla fermata del tram” gli archeologi svelano il luogo della congiura
“Morì aLargo Argentina”. Lì c’era la Curia di Pompeo. Oggi il capolinea dell’8
Cinzia Dal Maso

ROMA — Dicono che in un primo momento Giulio Cesare abbia cercato di difendersi, alzandosi dalla sedia dov’era seduto e gridando. Poi però, visto che nessun senatore si levava a difenderlo ma tutti fuggivano terrorizzati, si avvolse tutto nella sua toga e si lasciò trafiggere da ventitré pugnalate senza un lamento. Cadde così il grande dittatore, il 15 giorno delle Idi di marzo dell’anno 44 a. C. E ora Antonio Monterroso, archeologo del Consiglio nazionale per le ricerche spagnolo, dice di aver individuato il luogo esatto dell’assassinio. L’edificio lo conosciamo da tempo: è la cosiddetta “Curia di Pompeo” che faceva parte di un grandioso complesso fatto costruire da Gneo Pompeo nel 55 a. C. e comprendente un teatro, un enorme portico rettangolare addossato al teatro e, al centro di uno dei lati del portico, la Curia. La sua parte estrema si vede ancora oggi nell’Area sacra di Largo Argentina: è un grande podio che sta proprio alle spalle del tempio circolare, mentre il resto dell’edificio è coperto dalla strada moderna e dal settecentesco teatro Argentina. Indagini di anni passati ci hanno restituito un’immagine abbastanza dettagliata di com’era fatta, ma mai nessuno prima d’ora si era posto il problema di capire in quale punto esatto dell’edificio Cesare spirò. Forse perché in parte già si sapeva. Gli storici antichi dicono infatti che, dopo essersi alzato dalla sedia, Cesare si mosse verso uno slargo davanti alla statua di Pompeo, e lì i congiurati lo accerchiarono con le spade in mano. Anche la statua è giunta fino a noi ed è conservata nel vicino palazzo Spada. Tutto fila, dunque. E la dichiarazione di Monterroso che dice «fino a oggi non avevamo trovato nessuna prova materiale dell’evento» non è proprio del tutto veritiera: abbiamo la statua. Monterroso dice però di aver identificato una struttura di cemento larga tre metri e alta due, che sarebbe una sorta di Memoriale eretto anni dopo da Ottaviano Augusto per condannare il feroce assassinio. «Le fonti dicono che il luogo esatto dove Cesare cadde fu racchiuso in una struttura rettangolare colmata di cemento», continua Monterroso. E secondo lui questa struttura sarebbe da decenni davanti ai nostri occhi perché sarebbe una parte di quel podio che si ammira tra gli edifici dell’Area sacra di Largo Argentina. Monterroso ha studiato per anni il teatro di Pompeo e ora sta ampliando le sue ricerche agli altri edifici del complesso. Il suo annuncio odierno, per quanto affascinante, richiederebbe qualche prova in più per convincere. Ma ha comunque il merito di riportare l’attenzione pubblica su un luogo importantissimo dell’antica Roma ma trascurato. Poche persone oggi, mentre vanno a teatro o pigliano il tram lì di fronte, ricordano che proprio in quel luogo si consumò uno degli eventi più decisivi della storia della romanità. Un evento che affascina da sempre, che ha ispirato la grande tragedia di Shakespeare come i film ispirati all’antica Roma e persino il recentissimo “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani. Magari Monterroso riuscirà ad ancorare l’immaginario storico alla realtà.

“È una tesi che ha bisogno di prove ora bisogna cercare sotto le rotaie

La Repubblica, 13.10.2012
Andrea Carandini, autore dell’Atlante di Roma antica:
“Vorrei far vedere tutto ai turisti”
“È una tesi che ha bisogno di prove ora bisogna cercare sotto le rotaie”

ROMA - L’archeologo Andrea Carandini, che ha di recente pubblicato il monumentale Atlante di Roma antica, frutto di decenni di lavoro di un’équipe nutritissima di studiosi, è perplesso di fronte alla notizia della scoperta del luogo dell’assassinio di Giulio Cesare. “Io sono come Tommaso — dice — e quel podio lo devo vedere bene prima di giudicare”. Ma sappiamo com’era fatta esattamente la Curia? «Certo, è tutta ricostruita, basta guardare l’Atlante. Sono stati trovati frammenti di murature che ci hanno consentito di disegnare le dimensioni esatte dell’edificio. Si è trovato poi un muro parallelo a un lato dell’edificio che era forse la fondazione di una fila di colonne, per cui pensiamo che la curia fosse probabilmente affiancata da un portico. Si sono trovati persino i resti di una nicchia, che con molta probabilità ospitava la statua di Pompeo. Come vede, non c’è molto altro da dire». La nicchia però è nella parte della Curia che oggi non è a cielo aperto, mentre Monterroso parla di un memoriale di cemento nell’Area sacra. «Io mi fido dei testi antichi che parlano di assassinio di fronte alla statua di Pompeo. Se Monterroso non porta prove più convincenti, per me il caso è chiuso». Lei crede dunque che non sia necessario indagare ancora? «Merita sempre indagare e capire sempre meglio. Anzi, proprio ora che si sta per spostare il capolinea del tram, e sono in programma lavori ingenti nell’area, potrebbe essere il momento propizio per effettuare delle ricerche almeno nel terrapieno sotto il capolinea. Poi si potrebbe ricoprire il tutto e consentire ai turisti di visitare la curia entrando dall’Area sacra, in grotta. Sarebbe affascinante per tutti, e renderebbe giustizia a Cesare». (c. d. m.)

sabato 29 settembre 2012

Pantheon

Pantheon
Flaminio Lucchini
Caroci
sul libro: Emblema dell'architettura d'Occidente e modello di ogni edificio a pianta centrale, il Pantheon continua a occupare le menti di storici e architetti, a quasi duemila anni dalla sua costruzione. Il testo si rivolge ad appassionati e addetti ai lavori. Fornisce una nuova sintesi di notizie storiche, architettoniche, religiose, seguendo un ordine "tematico", secondo gli elementi della composizione dell'edificio. Capitoli specifici vengono dedicati alle fondazioni, alla cupola, alla porta, ai rivestimenti, al cantiere di costruzione.

sabato 25 agosto 2012

“Senza regole e senza fondi la nostra battaglia solitaria per difendere l’Appia Antica”

“Senza regole e senza fondi la nostra battaglia solitaria per difendere l’Appia Antica”
FRANCESCO ERBANI
VENERDÌ, 13 LUGLIO 2012 LA REPUBBLICA R2-CULTURA

Rita Paris, archeologa e soprintendente, racconta come, dal 1996 a oggi, tutelare l’area della strada romana da abusi e condoni sia un’impresa quotidiana


Da quando dirige l’ufficio della Soprintendenza che tutela l’Appia Antica, l’archeologa Rita Paris fa l’archeologa per un venti per cento del suo tempo. L’ottanta lo spende in altre incombenze. Mettere vincoli. Rigettare richieste di condoni. Studiare le carte degli avvocati pagati da chi non vuole vincoli e invoca condoni. Aggirarsi fra le norme che dovrebbero proteggere questo territorio di stupefacente bellezza, e che invece si aggrovigliano in un campionario di inefficacia. Sgranare gli occhi per scovare quali schifezze nascondono le plastichette verdi di un cantiere. Difendersi dal fuoco amico. Sollecitare i suoi superiori al ministero fino a strattonarli se si assopiscono. Tenere a bada la solitudine che, quando stringe la gola, le fa dire che tutto questo non ha senso
e, subito dopo, che se mollasse sarebbe peggio. L’Appia Antica è un’area di verde e di archeologia grande 3.800 ettari. L’antica strada romana scorre fiancheggiata di pini a ombrello in un lembo di campagna che arriva nel cuore di Roma. Rita Paris la custodisce dal 1996, quando gliel’affidò l’allora soprintendente Adriano La Regina. Dal 2004 dirige anche il Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo, che al pregio dei capolavori, alla qualità delle mostre, affianca un’affabilità dell’accoglienza altrove ignota. Lavora alla Soprintendenza dal 1980. Il suo quartier generale è a Villa Capo di Bove, qualche centinaio di metri dal monumento simbolo dell’Appia, la tomba di Cecilia Metella. Il vecchio proprietario, un importatore di frutta, aveva ceduto al vezzo di molti residenti sull’Appia: conficcare nella facciata ogni sorta di lapidi romane. Antonio Cederna dedicò a quest’abitudine di amare l’antico solo se fatto a pezzi esilaranti racconti. Dall’alto della villa, che ora di Cederna conserva l’archivio, si spalanca una vista su Roma che mette i brividi.
Fu lei a battersi perché Capo di Bove fosse acquisita dallo Stato.
E davanti alla villa ha scavato uno spettacolare complesso termale del II secolo.
«Era il 2002. Quell’operazione creò panico. Ho subìto interrogazioni parlamentari, qualcuno fece circolare l’accusa che La Regina e io avessimo condotto false gare d’appalto. Ma il direttore generale del ministero, Giuseppe Proietti, ci sostenne. Spendemmo 3 miliardi di lire. Ormai quella stagione si è chiusa».
Perché?
«Né la Soprintendenza né il
ministero proseguono negli acquisti. Eppure alcuni privati si sono fatti avanti per vendere reperti che sono nelle loro proprietà
».
Per esempio?
«Ci è stato offerto il Sepolcro
degli Equinozi, uno dei monumenti ipogei di maggior rilievo che conosciamo. Chiedono un milione, forse si può trattare. Ma mi hanno detto che non c’è un soldo».
Sono monumenti visitabili?
«Spesso non sono neanche visibili. Una volta per fotografare il sepolcro di sant’Urbano dovemmo salire sul cofano di una macchina, tanto alta era la recinzione issata dai proprietari. Lì intorno stiamo scavando e abbiamo rinvenuto materiale strepitoso – strade, incroci, cippi. Il sepolcro lo avrebbero venduto a un miliardo di vecchie lire. Ora, chissà, costerebbe ancora meno. Ma non c’è niente da fare. Per me è una pugnalata».
Tranne la strada, Capo di Bove e altre particelle, l’Appia è tutta privata.
«Sì, nonostante il vecchio Piano regolatore di Roma la destinasse a parco pubblico. Questa prospettiva è smarrita. Ma è smarrita ogni certezza sulla tutela di questo patrimonio. Solo lo scorso anno ho ottenuto che l’ufficio legislativo del ministero producesse una circolare in cui si stabilisce che il nostro parere è obbligatorio e vincolante su tutto ciò che si vuol fare sull’Appia».
Un piccolo passo avanti.
«È una circolare, non una legge. Pensi che appena qualche giorno fa il Demanio ci ha consegnato la via Appia dichiarandola monumento nazionale e non strada comunale come tutte le
altre».
Sbaglio o questo avviene con un po’ di ritardo?
«Non sbaglia. Ma è comunque merito degli attuali dirigenti del Demanio. Ora dovremo dettare le regole per la gestione. Metteremo dei cancelli, la strada non sarà più percorribile come una normale via di scorrimento. Ma il mio più grave cruccio resta intatto: io sono costretta a rincorrere gli altri per esercitare la tutela».
Che vuol dire?
«Se qualcuno, poniamo, vuol ampliare un capannone, fa una richiesta al Municipio. Sempre che io lo venga a sapere, prendo carta e penna, scrivo a quel qualcuno e gli dico: guardi che lei deve sottoporre anche a noi il suo progetto».
Non c’è la consapevolezza di quanto l’Appia sia un luogo speciale.
«Manca l’idea che questo sia un territorio unitario. Tutto il contesto paesaggistico è di interesse, non solo i monumenti, lo documentano secoli di indagini. Eppure quando proponiamo un vincolo, chi fa ricorso trova un giudice del Tar per il quale se non ci sono reperti e se la strada romana dista venti metri dalla proprietà, il vincolo è illegittimo. Ma sui vincoli ho incontrato resi-
stenze anche dentro il ministero ».
Quando?
«Dietro la tomba di Cecilia Metella c’è il Castrum Caetani. Lì i proprietari hanno commesso degli abusi a ridosso di una torretta medievale per i quali hanno avviato il condono. Ho chiesto almeno quattro o cinque volte agli uffici comunali di poter vedere le pratiche. Ma invano. Alcuni anni fa ho messo un vincolo. L’allora ministro Francesco Rutelli era contrario e il direttore regionale, Luciano Marchetti, firmò il decreto con riserva. La proprietà ha fatto ricorso e il giudice ci ha dato torto. Il motivo è sempre lo stesso: occorre vincolare solo il monumento. Io sono
convinta del contrario e appena possibile il vincolo lo rimetteremo ».
Quali abusi si commettono sull’Appia?
«Qualche giorno fa ci hanno
segnalato lo sbancamento di una collina di lava proprio qui, dietro Capo di Bove. Non so a cosa mirassero, forse a costruire un deposito. Noi denunciamo. Ma in tutti questi anni nessuna delle denunce ha avuto effetti. Si fanno gli abusi e non si torna indietro. Chi aveva un annesso agricolo lo ha trasformato in una villa. Poi ha costruito la piscina, chiedendo l’autorizzazione per un bacino di riserva idrica. La roba sta tutta lì: stabilimenti, concessionarie di auto, impianti sportivi, ristoranti. Persino i vivai usano il cemento».
E voi?
«Nel mio ufficio siamo tre donne a controllare questo territorio. Appena vediamo una recinzione ci mettiamo in allarme. Sulla mia scrivania giace una montagna di pratiche di condono che neanche si dovevano accettare, ma che una volta presentate bloccano la demolizione. E aggiungo che per respingere le domande tocca a me l’onere di giustificare il rilievo archeologico ».
La sua è una condizione esemplare della grave sofferenza in cui versa la tutela dei beni culturali in Italia.
«Siamo sempre meno, sempre più stanchi e le nostre fatiche sono spesso frustrate».
La sua fatica più grande?
«Far capire anche al ministero quanto è grave questa situazione. Un anno fa, all’inaugurazione di una mostra, venne il ministro Galan. Il suo consigliere Franco Miracco mi aprì le porte dell’ufficio legislativo, che ha prodotto la circolare che le dicevo. Andrea Carandini ha fatto approvare un documento sull’Appia dal Consiglio superiore dei Beni culturali. Ma poi non è successo nulla. Mi preoccupa non essere riuscita a fissare nessun punto fermo. Tutto è affidato all’impegno dei singoli. E i singoli si sentono soli».
L’attuale ministro?
«Mai visto».
Quanto guadagna?
«1.700 euro al mese, quando ci sono anche le maggiorazioni».

sabato 18 agosto 2012

Riapre la "Villa delle meraviglie" Di età tardo romana, risalente al III-IV secolo d.C., è la più imponente del Mediterraneo

Riapre la "Villa delle meraviglie" Di età tardo romana, risalente al III-IV secolo d.C., è la più imponente del Mediterraneo
SALVATORE MAROTTA
RINASCITA – 12 luglio 2012
Il giorno a lungo atteso è finalmente arrivato: il 4 luglio scorso è stata inaugurata e riaperta definitivamente al pubblico, dopo sei anni di lavori di restauro, Villa romana del Casale di Piazza Armerina, in provincia di Enna, famosa in tutto il mondo per i suoi splendidi mosaici e per essere stata inserita nel 1997 tra i siti UNESCO Patrimonio dell'Umanità. All'inaugurazione, svoltasi "in notturna" grazie al nuovo sistema d'illuminazione, hanno preso parte varie autorità guidate dal commissario Vittorio Sgarbi e dall'architetto Guido Meli, direttore del Parco archeologico ed autore del progetto di restauro, messo in opera da 50 restauratori di tutta Europa. Nessun ministro del governo Monti ha avuto la decenza di presenziare all'avvenimento, neanche il responsabile del Turismo. E non ci venga a raccontare "minchiate", signor ministro Gnudi, sul mancato invito. Per un evento di così grande rilevanza il ministro viene, punto e basta. Ma non vogliamo polemizzare più di tanto con dei "tecnici" che non capiscono la straordinaria potenzialità di questo sito, unico al mondo, in termini di ricaduta turistica, economica ed occupazionale, per e quindi per l'intera Nazione, di età tardo romana, risalente al III-IV secolo d. C., è la più imponente del Mediterraneo. I suoi "numeri" parlano chiaro: un'area di circa (ma nuovi ritrovamenti archeologici imporranno presto di riconsiderare l'intero sito), 120 milioni di tessere musive che coprono circa quadri di pavimentazione; e poi dipinti murali, sculture, fontane, colonne. Questo inestimabile patrimonio archeologico, negli ultimi decenni era fortemente compromesso da tutta una serie di fattori, per cui si rendeva necessario e urgente un intervento di recupero e conservazione dell'intera struttura. Va dato atto a Fabio Granata, all'epoca assessore regionale ai Beni culturali, di aver avviato l'iter per il restauro della Villa. Sono stati spesi 18 milioni di euro reperiti attraverso i fondi del Por Sicilia 2000/2006, ma almeno altri 5 milioni saranno necessari per recuperare al meglio le Terme, il Triclinio, il giardino antistante , ed altri servizi come l'area attrezzata di sosta e i cartelli del "percorso museografico". Rimasta sepolta per secoli, romana cominciò a rivedere la luce nell'Ottocento e in successive campagne di scavo negli anni Venti e Trenta, fino agli anni Cinquanta con l'archeologo marchigiano Gino Vinicio Gentili, che guidò la più completa operazione di rinvenimento del sito archeologico. Negli anni Sessanta i preziosi mosaici furono coperti con una struttura in ferro, plastica e vetro, ad opera dell'architetto Franco Minissi. Il nuovo progetto di recupero e conservazione ha previsto una nuova copertura in legno e rame scurito con tetto ventilato per garantire un clima ideale ed evitare il terribile "effetto serra" che tanti danni ha arrecato nel tempo ai mosaici. Sono state ridefinite le "gerarchie spaziali" della Villa recuperando l'antica volumetria in base al criterio della proporzione metrica applicata alle colonne sopravvissute. Inoltre, è stata creata una barriera contro l'umidità e le infestazioni biologiche attraverso l'isolamento dei muri esterni con un sistema drenante e traspirante. Eccezionale il lavoro di restauro conservativo effettuato sulle decorazioni pavimentali e parietali, usando le tecniche più innovative. "In un primo tempo sono stati rimossi strati di limo di decenni, muffe, alghe, batteri, funghi e sali; ripulite le tessere, danneggiate da materiali aggressivi di precedenti restauri (cere, incrostazioni, resine); distaccate piccole porzioni di mosaico per intervenire sui ferri, ormai arrugginiti, dei massetti di cemento; ripianati i "vulcanelli" e infiltrati nel terreno prodotti risananti; l'idrossido di bario iniettato con aghi inseriti tra le tessere, attraverso centinaia di flaconi di flebo, ha permesso la bonifica da alcuni sali e, al substrato, di recuperare la propria solidità. Si è passati poi al restauro vero e proprio, con l'uso di tessere in malta incisa per i decori geometrici e base incolore neutra per il figurato, che ha permesso di recuperare la lettura di gran parte dei mosaici originari. Alla Villa è stata usata, per la prima volta, una preziosa tecnica ricostruttiva delle lacune, realizzata in alcune parti del figurato di piccole dimensioni, con l'uso di malta incisa a scomposizione cromatica, secondo i colori dominati dal contorno, mutuando tale tecnica dalla reintegrazione pittorica dei dipinti e degli affreschi. Il trattamento finale è previsto con ossalato di ammonio, per consolidare e proteggere le superfici, oltre che rinvigorire l'originario cromatismo delle tessere lapidee".

mercoledì 15 agosto 2012

I resti della Villa romana saranno presto fruibili

I resti della Villa romana saranno presto fruibili
La Sicilia, Venerdì 20 Luglio 2012

I resti della Villa romana saranno presto fruibili. Sarà possibile grazie a una convenzione tra il Comune e il Parco archeologico di Eloro e Villa del Tellaro. Lo rende noto l'assessore alla Cultura e turismo, Giuseppe Morale. E lo fa per rispondere «alle accuse ingiustificate» del presidente della Pro Loco Peppino Corsico. E' stato quest'ultimo ad additare le amministrazioni comunale e provinciale di non lavorare per valorizzare il territorio. Per Corsico «il Comune non dovrebbe consentire che le porte del Palmento e frantoio Midolo rimangano chiuse per carenza di personale». E che «la Provincia dovrebbe mettere a disposizione le chiavi e il personale per garantire la regolare fruizione dei resti della Villa romana». L'assessore Morale incalza, con dati alla mano. «Con delibera di Giunta municipale (la 31 del 13 luglio 2012) abbiamo approvato una convenzione con il Parco archeologico di Eloro e Villa del Tellaro e delle aree archeologiche di Noto e comuni limitrofi, per la valorizzazione, la manutenzione e la conservazione delle aree archeologiche ricadenti nel territorio di Avola, come i resti della Villa Romana, il Dolmen e le aree archeologiche di Avola Antica. Il tutto al fine di garantire anche la fruizione al pubblico di siti che appartengono al demanio archeologico regionale». Per il museo di via Villafranca precisa: «Stiamo provvedendo alla sostituzione della porta di ingresso in legno con una di vetro, per rendere i locali a norma e consentire quindi al personale di tenerlo aperto quotidianamente». Ma i primi passi avanti, per valorizzare il territorio e far tesoro dei beni architettonici di cui dispone la città sono stati già fatti, secondo Morale, con il Teatro Garibaldi. «L'Amministrazione Cannata si è subito messa al lavoro per rendere le nostre bellezze architettoniche e archeologiche a portata di turista - aggiunge -. Non a caso abbiamo garantito l'apertura del teatro dal lunedì al sabato dalle 9 alle 14 e dalle 16 alle 19. Orari che non hanno niente a che vedere con l'apertura e la chiusura degli uffici comunali». Giuseppe Morale parla anche degli obiettivi futuri. «Uno dei nostri principali scopi è quello di mettere in rete tutte le nostre risorse architettoniche, culturali e paesaggistiche. Perché il turismo è fatto anche di virtualità». Proprio per tale ragione fa un appello ben preciso. E lo rivolge alla Pro Loco. «Invitiamo Peppino Corsico di instaurare con noi un rapporto sinergico e di lavorare insieme all'amministrazione comunale per rendere questa città un luogo più attrattivo per i turisti e per noi stessi». Emanuela Tralongo 20/07/2012

Lupa Capitolina, l’ultima verità sulle origini

Lupa Capitolina, l’ultima verità sulle origini
ADRIANO LA REGINA
29 GIUGNO 2012, LA REPUBBLICA, Roma
È medievale, non etrusca: la certezza dalle analisi al carbonio. Ma c’è chi ancora dubita
ALLA Lupa, l’enigmatica statua bronzea del Campidoglio, viene alla fine riconosciuta dai Musei capitolini un’attribuzione cronologica fondata su dati scientifici e non più solamente su valutazioni di natura stilistica. Ne è stata occasione la presentazione dei risultati delle analisi svolte per cinque anni con meticolosa caparbietà da Lucio Calcagnile, professore di fisica nell’Università del Salento. L’esame con il radiocarbonio delle terre di fusione rimaste incluse all’interno della Lupa, ripetuto ben 28 volte, ha dato risultati incontrovertibili: l’oggetto è stato fuso tra gli anni 1021 e 1153, e non nel V secolo avanti Cristo come sempre sostenuto da archeologi e da studiosi d’arte antica. Il laboratorio in cui sono state effettuate le indagini, il “Centro di datazione e diagnostica” del Dipartimento di Ingegneria dell’innovazione con sede a Brindisi, è la prima struttura italiana per la ricerca e il servizio di datazione con il radiocarbonio. Questo genere di analisi ha ormai raggiunto livelli di massima affidabilità, e l’équipe di ricercatori guidata da Calcagnile gode di altissimo credito negli ambienti scientifici internazionali. Le indagini dell’Università del Salento concludono un processo di revisione della data del bronzo capitolino avviato quindici anni fa da Anna Maria Carruba, la quale respinse l’attribuzione della Lupa all’arte etrusca, o comunque all’epoca classica.
LE SUE erano considerazioni originali, riguardanti il riconoscimento della tecnica di fusione, non impiegata in antico, e di altri aspetti consueti in epoca medievale, quali la particolare rifinitura delle superfici. Pubblicate nel 2006 queste novità critiche furono insistentemente disattese e avversate dalla direzione dei Musei capitolini e, negli ambienti accademici italiani, da storici dell’arte del mondo antico e medievale. Una posizione di estrema resistenza sull’attri-buzione dei caratteri stilistici della Lupa ad epoca classica si manifesta ora con la proposta di considerarla il calco medievale di un originale etrusco. Naturalmente la chiusura della controversia sulla datazione a favore delle ricerche svolte sulla struttura materiale, e non di quelle fondate sull’esame dei caratteri stilistici, non esaurisce il processo interpretativo; lo ripropone piuttosto su nuove basi riguardanti l’arte a Roma nei secoli XI e XII. Ma non è tutto. Con la revisione della datazione di un’opera così significativa le indagini scientifiche si pongono a pieno titolo all’interno della storia dell’arte, non come «scienze sussidiarie» subalterne ed a servizio della ricerca storica, ma nella maniera più evidente come strumenti di pari rango nello svolgimento dell’attività critica. Dal punto di vista teorico questo era stato riconosciuto da molto tempo. Appartengono alla seconda metà del Novecento fondamentali indagini strutturali, come quelle svolte sui bronzi antichi dall’archeologo Dieter Heilmeyer, già direttore dei Musei di Berlino. Nel 1986 il nostro Cesare Brandi, fondatore del glorioso Istituto centrale per il restauro, affermava che l’impiego di nuove tecniche d’indagine avrebbe assunto importanza sempre maggiore anche nella storia dell’arte. La datazione con il radiocarbonio del Grifo e del Leone di Perugia tra il 1250 ed il 1270 aveva dato, infatti, definitiva sepoltura ad attribuzioni «bislacche», così le definì Brandi, dei due bronzi.
Illustri studiosi come Giacomo Caputo, soprintendente alle antichità di Firenze, e Filippo Magi, direttore dei Musei Vaticani e professore di archeologia nell’Università di Perugia, avevano sostenuto che il Grifo e il Leone erano di epoca etrusca o romana. Peccato però che, poco dopo, il ritrovamento di un documento d’archivio dimostrò che il Grifo era stato fuso nel 1274, dando così una puntuale conferma alla datazione ottenuta con il radiocarbonio. La storia degli studi relativi ai due bronzi perugini presenta impressionanti analogie con quella della Lupa, opera d’arte più celebre e per questo meno suscettibile di innovazioni interpretative.
L’ipotesi del bronzo capitolino ottenuto con il calco di un originale etrusco, dovuta ad Edilberto Formigli, non meriterebbe alcuna attenzione se non fosse stata formulata da un esperto conoscitore della metallurgia antica. Si basa su osservazioni di cui si possono dare tuttavia altre interpretazioni, come è stato già fatto in una discussione tra tecnici della materia. Per altro se fosse vero, come egli sostiene, che la Lupa reca tracce dell’impiego di calchi negativi per plasmare i riccioli del vello, questo non dimostrerebbe in alcun modo che l’originale dal quale i calchi sono stati tratti fosse etrusco e non, ad esempio, uno dei tanti leoni stilofori del XII secolo.

sabato 11 agosto 2012

I Fori studiati dalla mongolfiera, mostra svela i segreti

I Fori studiati dalla mongolfiera, mostra svela i segreti
LAURA LARCAN
LUNEDÌ, 18 GIUGNO 2012 LA REPUBBLICA PRIMA
LA STORIA dell’archeologia a Roma sta per svelare un capitolo poco noto, che fu scritto tra il 1898 e il 1911, quando il Foro romano e il Palatino divennero la culla di una sperimentazione senza precedenti in Europa. Quando, cioè, lo studio, l'indagine e la documentazione grafica degli scavi si facevano dalla cesta di un aerostato, tra i 60 e i trecento metri d’altezza. Quando nell’area centrale degli scavi debuttò la fotografia aerea archeologica. A mettere a punto questa impresa leggendaria fu Giacomo Boni. L’ARCHITETTO veneto assunse la direzione del Foro romano dal 1898 al 1925, in stretta collaborazione con la Sezione aerostatica del Genio militare e soprattutto con il capitano Maurizio Mauro Moris, in compagnia del quale Boni effettuò le prime “volate” sulla valle del Foro. A raccontarle, è una serie straordinaria di fotografie inedite nella mostra “Boni e il Genio”, organizzata dalla soprintendenza ai Beni archeologici e dall’università La Sapienza nell’ambito del Salone dell’editoria archeologica di Roma. La mostra, da domani al 21 giugno, farà una prima tappa nella sede universitaria delle ex Vetrerie Sciarpa, in via dei Volsci 122, per poi spostarsi dal 23 giugno al 7 luglio alla British School at Rome (via Gramsci 61). «Si tratta di un nucleo di fotografie aeree scattate dal pallone frenato e dal cosiddetto pallone drago, Draken-Ballon, e riemerse grazie ad un lavoro ricerca condotto tra i materiali dei nostri archivi», spiega Patrizia Fortini, archeologa della soprintendenza e curatrice della mostra, insieme a Elisa Cella e Laura Castrianni. Un’operazione epocale oggi documentata da 70 scatti unici. «Boni eseguiva vedute d’insieme, da utilizzare a supporto delle piante generali di scavo, e vedute di dettaglio per ricostruire le fasi d’indagine e individuare stratigrafie e monumenti non più esistenti o visibili», dice Elisa Cella. Tra le chicche, le prime vedute aeree del Lapis Niger, della Fonte di Giuturna, dello Stadio di Domiziano appena individuato. Spiccano anche una veduta del Foro romano invaso dall'acqua in occasione dello straripamento del Tevere a dicembre del 1900, come pure il cantiere del Vittoriano.

venerdì 10 agosto 2012

Al Novi Ark le pietre e le parole dell’antica Mutina

Al Novi Ark le pietre e le parole dell’antica Mutina
SABATO, 21 LUGLIO 2012 LA REPUBBLICA - Bologna

MODENA — Con “La strada si anima”, lo spettacolo in programma stasera alle 21.30 al Novi Sad, apre a Modena il parco archeologico Novi Ark, realizzato con i reperti provenienti dagli scavi per il parcheggio interrato Novi Park. Un angolo dell’antica Mutina tornerà a vivere attraverso i racconti ispirati dalle testimonianze scolpite sulla pietra o dai reperti di età romana recuperati al Novi Sad: gli uomini e le donne di duemila anni fa, “risvegliati” dagli scavi archeologici, si presenteranno al pubblico nella cornice scenografica del Parco Archeologico, preceduti da un’introduzione dello scrittore Valerio Massimo Manfredi sugli eventi che portarono Mutina a diventare la città romana più importante della Cisalpina. “Siamo rimasti troppo al buio” - questo il titolo della pièce teatrale curata dall’autrice Elena Bellei è un invito a guardare agli insegnamenti della storia perché, come dice uno dei personaggi in scena, “la vita è un prestito della natura; prima o poi va restituita. Fai che sia migliore e non peggiore di quando l’hai avuta”. (giulia palmas)

giovedì 9 agosto 2012

Il mare restituisce la storia. Recuperato un altro rostro di una delle navi affondate nella battaglia delle Egadi

Il mare restituisce la storia. Recuperato un altro rostro di una delle navi affondate nella battaglia delle Egadi
LA SICILIA Sabato 23 Giugno 2012
La campagna di «Archeorete» si svolge in collaborazione con la «Hercules» della Rpm Nautical Foundation
L´ottavo rostro così come è stato ritrovato la scorsa settimana ... Favignana. Il mare eguseo continua a restituire preziosissime testimonianze storiche dello scontro finale della prima guerra punica nel quale il 10 marzo del 241 avanti Cristo si affrontarono cartaginesi e romani. E' notizia di ieri, infatti, che martedì scorso, durante la nuova campagna di «Archeorete Egadi», diretta dalla Soprintendenza del Mare per la quale è coordinata dall'archeologo Stefano Zangara, è stato ritrovato il nono rostro grazie all'ausilio delle tecnologie di cui dispone la nave oceanografica «Hercules», della fondazione statunitense Rpm Nautical foundation, che consentono di esplorare profondità molto elevate. Soltanto una settimana prima, fra il 10 e l'11 giugno scorsi, il Rov, il mezzo filoguidato subacqueo di cui è dotato la nave «Hercules», aveva permesso di individuare, poggiato su un fondale sabbioso di circa ottanta metri, l'ottavo rostro in bronzo appartenuto a un'antica nave da guerra. Questo rostro è stato trovato in posizione eretta e parzialmente sepolto fino alla pinna superiore. Un rapido test effettuato dal team scientifico operante lo ha indicato come probabilmente integro. Sempre nella stessa area in quella circostanza sono stati intercettati altri importanti reperti. Si tratta di una consistente quantità di anfore di varia tipologia e quasi totalmente integre, di due elmi montefortini, di piccole suppellettili facenti parte del carico di uso di bordo e di un interessante elemento metallico. Tutti questi reperti, che dopo il loro recupero saranno sottoposti a un accurato studio, per il momento sono stati georeferenziati nel sistema Gis del progetto «Archeorete Egadi». «Il posizionamento di questi ultimi ritrovamenti - dicono dalla Soprintendenza del Mare - indicano ancora una volta che la loro dispersione è concentrata in un'area ben definita. Il confronto con la proiezione statistica redatta negli ultimi anni e relativa alla nostra zona di copertura sonar ed elaborata sin dal 2005, conduce alla conclusione che molti altri reperti sono ancora giacenti sul fondo del mare. Inoltre il dottor Murray, insigne professore statunitense anche lui a bordo della nave oceanografica "Hercules", si è dimostrato particolarmente entusiasta per queste scoperte confortando la nostra rilettura delle antiche fonti storiche. Non sappiamo se le condizioni meteo-marine ci accompagneranno anche nei prossimi giorni, aspetteremo le finestre operative confortati dai nostri eccezionali collaboratori». Anche quest'anno il progetto di «Archeorete Egadi» si inserisce nel programma delle attività d'altofondale della Sovrintendenza del Mare che ha previsto pure incontri formativi e divulgativi per scolaresche, enti di ricerca e studiosi. La Sovrintendenza del Mare e l'Rpm Nautical foundation sono tornati a operare nelle acque delle Egadi lo scorso 1 giugno per continuare la ricostruzione delle fasi conclusive dello scontro della prima guerra punica (noto come battaglia delle Egadi) di cui già la scorsa estate sono state individuate e recuperate importantissime testimonianze. Nell'estate 2011, infatti, sono stati trovati altri due rostri, numerose anfore (una ottantina quelle integre individuate e databili tra il IV e il I secolo avanti Cristo) e altri tre elmi montefortini. Dei due rostri in bronzo recuperati all'incirca un anno fa uno riporta una iscrizione a rilievo in latino ricollegabile alla battaglia che sancì la conclusione della prima guerra punica, mentre degli elmi due soltanto erano integri. Le ricerche, la cui conclusione è prevista per la fine di questo mese, sono condotte con la collaborazione di Capitaneria di Porto di Trapani, sommozzatori della Guardia costiera, personale dell'Area marina protetta delle Egadi, Shipping agency di Luigi Morana, marineria, diving e subacquei locali. Il compartimento marittimo del capoluogo quando è stata avviata questa nuova campagna di ricerche di reperti archeologici sommersi nel mare eguseo ha emanato una ordinanza che, per l'intero periodo, impone a qualsiasi tipo di imbarcazione in transito nella zona in cui opera la nave oceanografica «Hercules» di mantenersi a una distanza di sicurezza che non sia inferiore a cinquecento metri. Margherita Leggio

mercoledì 8 agosto 2012

Nella Domus del ragazzo con il delfino

Nella Domus del ragazzo con il delfino
VENERDÌ, 29 GIUGNO 2012 IL TIRRENO - LUCCA
Così un privato ha riportato alla luce un tesoro di epoca romana
LUCCA Spettacoli e archeologia, un binomio vincente. Senza rischi di sfociare nel folklore. Ne è sicura Elisabetta Abela, tra i protagonisti delle iniziative lucchesi delle Notti dell'archeologia. Sarà lei a spiegare (il 27 luglio), tutti i segreti di uno degli ultimi scavi da lei condotti: quello della Domus romana del fanciullo. Una scoperta particolare non solo per la sua natura - è un'abitazione patrizia nel cui portico è stato trovato il disegno di un fanciullo con il delfino - ma anche per come è avvenuta. A commissionare lo scavo, infatti, è stato un privato che non ha badato a spese quando l'archeologa gli ha prospettato la possibilità che nella cantina del suo palazzo ci fosse qualcosa di molto importante. Il proprietario ha dato carta bianca ad Abela e, una volta terminata la ricerca, ha voluto che l'area rimanesse visibile al pubblico, al contrario di quanto avviene per la maggioranza degli scavi. La Domus, quindi, sarà una delle attrazioni delle Notti lucchesi, con una visita e assaggi di cibi della cucina dell'Impero romano. Un abbinamento, con la gastronomia e con tutto quello che attrae gente, che secondo Abela fa bene all'archeologia «perché la porta fuori dagli ambienti accademici - dice - e la fa conoscere a tutti. E il rischio che si faccia troppo folklore non c'è finché a lavorare ci sono professionisti seri e preparati».

martedì 7 agosto 2012

PIAZZA ARMERINA. tutti i numeri del monumento

PIAZZA ARMERINA. tutti i numeri del monumento
La Repubblica 30-06-12, pagina 15 sezione PALERMO
LA DECORAZIONE della Villa del Casale è composta da oltre 120 milioni di tessere musive distribuite su 4103 metri quadri di superfici pavimentali musive e in opus sectile. La dimensione delle tessere va da 4 a 6 millimetri: ce ne sono 36 mila per ogni metro quadro. Al restauro dei mosaici hanno lavorato 50 giovani restauratori provenienti da tutta Europa. Sul 70 per cento dei 2.748 metri di murature storiche, rivestite all' esterno di pannelli di schiuma minerale che hanno la funzione di isolare termicamente la struttura, si trovano dipinti murali. La struttura della Villa comprende quattro edicole e tre sculture marmoree, mentre c' è una grande fontana al centro del grande peristilio e sette fonti decorate a mosaico. Del centinaio di colonne che adornavano i vari ambienti ne sono rimaste 54 in situ, mentre sono presenti anche 14 capitelli e 44 basi in marmo. Il progetto di restauro, firmato da Guido Meli, che ha coordinato il gruppo di lavoro del Centro regionale per la progettazione e il restauro dell' assessorato ai Beni culturali, è finanziato tramite le risorse del Por Sicilia 2000/2006: l' importo complessivo è di 18.277.250 euro di cui a base d' asta 13.755.055,30 più somme a disposizione dell' Amministrazione regionale per 4.552.194 euro.

lunedì 6 agosto 2012

Tracce di storia romana riemergono a Gangi

Tracce di storia romana riemergono a Gangi
Valeria Ferrante
La Repubblica - Palermo 24/7/2012
Gli scavi nell’abbazia riportano alla luce reperti del I secolo avanti Cristo
«C’È PRESSO Engium (Gangi) un tempio dedicato alle dee Madri, il più ricco di Sicilia, ove anche Scipione l’Africano, reduce dalle sue vittorie, lasciò in voto tutto il suo bottino. Molte furono le statue e i tesori che Verre con mano sacrilega asportò. Ma non osò toccare la bronzea lastra su cui lasciò, a ricordo, inciso Scipione il suo nome... «. Così scriveva Cicerone nel 70 avanti Cristo “In Verrem”, per sostenere l’accusa contro il pretore delle Sicilia Gaio Licino Verre. Qui il celebre retore tracciava il profilo di Gangi come di una città municipale romana: un luogo vivo ove si innalzava il tempio della Magna Mater, da egli definito «augustissimum et religiosissimum fanum». Adesso all’Abbazia Gangivecchio le indicazioni date da Cicerone a proposito dell’antica Engium, vengono avvalorate dalla recente scoperta di una antico edificio romano databile presumibilmente I secolo avanti Cristo, che testimonierebbe, insieme al ritrovamento di altri reperti — mosaici, ceramiche e oggetti vitrei — l’esistenza in quest’area di un ricco insediamento romano. «Si tratterebbe di scoperte che permetterebbero di ricostruire in maniera scientifica e “moderna” la storia di questa zona delle Madonie » sostiene la professoressa Fabiola Ardizzone, docente di Archeologia medievale all’Università di Palermo, che coadiuvata dal professor Glenn Storey dell’Università dello Iowa, ha curato gli scavi all’interno dell’antica Abbazia di Gangi. «Quest’area era considerata infatti strategica nella viabilità dell’epoca romana», prosegue la storica. Sarebbe ancora Cicerone a ricordare l’esistenza proprio di una strada molto importante che passava nei paraggi di Engium e che collegava Catania alla costa tirrenica attraversando l’entroterra, un tempo interamente coltivato a grano. In epoca successiva questa grande via divenne collegamento essenziale per il movimento delle truppe bizantine da un capo all’altro dell’isola. Ma la storia di Gangi, non si conclude qui: è molto più antica secondo gli archeologi, che hanno intenzione di portare avanti le loro ricerche. Secondo lo storico greco Diodoro Siculo, infatti, a fondare Engium sarebbe stata una colonia di cretesi venuti con Minos, ai quali, dopo la guerra di Troia, si unirono i coloni guidati da Morione. Un altro tassello interessante è quello rappresentato dai ritrovamenti di periodo altomedievale, VIII-IX secolo, testimonianza di una parte della storia che finora risulterebbe oscura e che poco a poco andrebbe riemergendo dalla viscere della terra. «Dai materiali fin qui raccolti ciò che appare più evidente è una continuità di vita del sito dal I secolo avanti Cristo sino alla fine dell’età bizantina in Sicilia, ovvero la seconda metà del IX secolo dopo Cristo. Tutto ciò inoltre è avvalorato dal rinvenimento di tessere di mosaico, ceramica fine da mensa, oggetti di vetro e altri di età bizantina — afferma la professoressa Ardizzone — Inoltre sarebbe proprio questa continuità dell’iter storico a permetterci di seguire nel tempo, la vita e le trasformazioni che ha subito l’insediamento, prima durante l’epoca romana, poi durante quella alto medioevale, infine divenendo luogo di stanziamento dell’esercito bizantino impegnato nel tentativo di resistenza all’avanzata islamica nel territorio». Quella in corso è solamente la prima parte della campagna di scavi avviata nell’area dell’Abbazia di Gangivecchio, che l’equipe dell’Università di Palermo e quella dell’Università dell’Iowa ha appena concluso. L’obiettivo però è portare avanti un progetto di ricerca sull’insediamento e sul territorio limitrofo tanto che per giugno — luglio dell’anno prossimo è stato fissato l’avvio per la seconda campagna di scavi. Negli anni Settanta l’Ecole Française de Rome e l’Università di Palermo avevano intrapreso alcune ricerche archeologiche proprio in quest’area, sottolineando l’importanza di questo sito pluristratificato in cui la storia della Sicilia romana si collegava a quella medievale. Nel 2000 invece l’Università dell’Iowa aveva effettuato a Gangi una serie di indagini geognostiche e di prospezioni che hanno permesso di aggiungere informazioni e dare consistenza archeologica a questo importante insediamento. Oggi a distanza di 40 anni il sogno sembrerebbe realizzarsi anche grazie all’iniziativa di alcuni mecenati che acquistando l’Abbazia di Gangivecchio hanno deciso di finanziare gli scavi, creare un dialogo tra gli enti pubblici, Comune di Gangi, Soprintendenza, Università e naturalmente i privati. Sull’intero complesso monasteriale Tenuta di Gangivecchio, vi è infatti in atto un progetto non solo culturale ma anche imprenditoriale. A parlarne è Marco Giammona, amministratore delegato della tenuta Gancivecchio: «Investire oggi in cultura è l’unico antidoto contro la crisi. Non possiamo starcene con le mani in mano a guardare gli alti e bassi dello spread, perché non risolveremmo alcun problema. Abbiamo quindi deciso di fare un’operazione diversa, forse controcorrente, e cioè puntare sui beni artistico culturali, presenti sul nostro territorio. Prima di tutto recuperando un luogo di eccezionale bellezza che è l’Abbazia di Gangivecchio, ed avviando lì un prestigioso progetto residenziale, nel rispetto dell’architettura preesistente — un convento benedettino del Quattrocento — infine sovvenzionando interamente la campagna di scavi archeologici che abbiamo voluto fosse composta da due referenti scientifici d’eccezione».

domenica 5 agosto 2012

Sotto i mosaici la vita segreta dell’antica Claterna

Sotto i mosaici la vita segreta dell’antica Claterna
La Repubblica - Bologna 27/6/2012
Appartiene con ogni probabilità ad un fabbro, vissuto nel I secolo avanti Cristo, la «domus» emersa nell’ultima campagna di scavi a Claterna, la città romana che sorgeva lungo la via Emilia nei pressi di Ozzano, alle porte di Bologna. Il reperto più prezioso individuato nella casa è un grande pavimento a mosaico, oggi finalmente visibile per intero (oltre tre metri per lato), realizzato nella tecnica del cocciopesto, con una decorazione di tessere bianche e nere che formano un reticolato decorato con motivi a rombo e a rosetta. Ma gli archeologi che hanno eseguito il lavoro, con il coordinamento di Claudio Negrelli dell’Associazione Civitas Claterna, leggono nella terra tracce invisibili ad occhi inesperti. «Ci sono segni inequivocabili che testimoniano come qui si svolgesse un’attività di fabbriceria — spiega Negrelli — Si vede dalla terracotta che si sbriciola, e ci sono zone bruciate, zone dove si è battuto. Per noi è già la “Casa del Fabbro”». Ma la scoperta permette un’altra lettura dell’antica città, come spiega il soprintendente Filippo Maria Gambari. «Il ritrovamento di oggi chiarisce l’andamento stratigrafico del sito che dimostra la longevità del centro abitato. L’anno scorso siamo partiti dai resti di una dimora risalente al VI secolo d. C. e oggi scopriamo che venne costruita sulle basi di un insediamento risalente all’epoca repubblicana. È un fatto curioso che la città sopravvisse fino al VI secolo, quando invece entrarono in crisi tutti i centri lungo la via Emilia. Evidentemente si trattava di uno snodo commerciale importante che teneva aperti raccordi anche verso l’Appennino. La crisi comunque, alla fine, arrivò anche per Claterna, che infatti non avrà una continuità medievale». Alla campagna di scavo, condotta da Maurizio Molinari e Alessandra Tedeschi per l’Associazione Civitas Claterna, e realizzata grazie al sostegno economico di privati (Crif, Ima, Cuticonsai), hanno partecipato studenti delle Università di Bologna, Ferrara, Venezia. E proprio l’attività didattica e sperimentale potrà costituire la futura anima del sito archeologico. «La crisi economica e i progetti di ricostruzione post-terremoto sottrarranno inevitabilmente fondi che erano destinati a progetti di riqualificazione dell’area — spiega ancora Gambari — Per questo abbiamo elaborato un nuovo indirizzo di valorizzazione del sito, nell’idea di creare un centro di sperimentazione sui materiali che coinvolgerà università e privati. In questo modo si verrebbe a creare un’area di qualificazione anche per il distretto produttivo circostante che partecipa alla vita di scavo». I materiali sono in fase di restauro e in futuro potrebbero essere presentati in una mostra.

sabato 4 agosto 2012

Piazza Armerina, torna a splendere la Villa imperiale del Casale

Piazza Armerina, torna a splendere la Villa imperiale del Casale
ALBERTO BONANNO
30 giugno 2012, LA REPUBBLICA
Sono serviti diciotto milioni di spesa, per tre quarti a carico dell’Unione europea, per ridare il lustro che il sito simbolo dell’archeologia siciliana aveva perso da troppo tempo. Fino a pochi anni fa le celeberrime scene di caccia apparivano offuscate da una patina grigiastra, qua e là chiazzata da gocce d’acqua e macchie di umidità. Da mercoledì l'apertura al pubblico Piazza Armerina, torna a splendere la Villa imperiale del Casale Uno dei mosaici restaurati alla Villa del Casale PALERMO - È un paradosso siciliano ante litteram. Nel 1881 l’ingegnere Luigi Pappalardo cominciò a scavare nella valle del fiume Gela trovando i primi resti di quello che sarebbe diventato il monumento simbolo della Sicilia, la Villa romana del Casale di Piazza Armerina. Quei mosaici, portati alla luce nella loro interezza in successive campagne di scavo durate fino agli anni Cinquanta, erano perfettamente conservati grazie a migliaia di tonnellate di fango precipitato dai costoni sovrastanti a causa del disboscamento dissennato praticato da chi aveva abitato quei luoghi. Avevano resistito ai Vandali, ai Goti e alla furia devastatrice del re normanno Guglielmo “il Malo”, che nel XII secolo rase al suolo quanto restava della residenza patrizia di Massimiano Erculeo, tetrarca di Diocleziano incaricato di importare le bestie feroci per i giochi di Roma, che in quel luogo era andato a ritirarsi una volta esautorato dall’imperatore. (...) E forse sono stati proprio gli occhi di Massimiano — o di Proculo Papulonio, altro probabile proprietario della domus — gli ultimi a vedere quei mosaici e quei pavimenti nello splendore di colori e di fantasia in cui appaiono oggi, dopo un restauro lungo sei anni. Diciotto milioni di spesa, per tre quarti a carico dell’Ue, per ridare il lustro che il sito simbolo dell’archeologia siciliana aveva perso da troppo tempo: fino a pochi anni fa le celeberrime scene di caccia, le fantasiose figure zoomorfe, le incantevoli geometrie delle decorazioni destinate a conquistare il turista, apparivano offuscate da una patina grigiastra, qua e là chiazzata da gocce d’acqua e macchie di umidità, chiuse in una teca infernale di metallo, vetro e plastica in cui il caldo d’estate e il freddo d’inverno erano capaci di rendere la visita un autentico tormento. Al di là del fatto che la luce, filtrata dalle coperture, stravolgeva i colori già resi uniformi dai depositi superficiali. Particolari che avevano mandato su tutte le furie lo scrittore Vincenzo Consolo, che nel 2004 aveva confidato proprio a “Repubblica” tutta l’amarezza provocata da una sua visita a Piazza Armerina. (...) Da allora a oggi il progetto di recupero, elaborato dal gruppo del Centro regionale del restauro coordinato dal direttore del Parco archeologico Guido Meli, e messo in atto da cinquanta giovani restauratori di tutta Europa diretti da Roberta Bianchini, si è finalmente concluso. E mercoledì si rivelerà al pubblico. Un progetto sul quale aveva scommesso il commissario straordinario della Villa, il critico d’arte Vittorio Sgarbi, e da par suo contrassegnato da feroci polemiche, scontri e battaglie. (...) Ora la struttura-fornace di protezione degli anni Sessanta è stata rimossa e sostituita con una copertura ventilata in legno, che rende giustizia a un patrimonio decorativo unico in Italia, realizzato tra il III e il IV secolo dopo Cristo da artisti nordafricani di incredibile maestria, gli stessi che portarono in Italia l’arte del mosaico. "Il momento più difficile — spiega Meli — è stato sicuramente la posa della copertura, perché essendo una struttura prefabbricata, abbiamo dovuto risolvere una serie di problemi per incastrare i vari pezzi e montarla alla perfezione". Un vero e proprio polmone capace di far respirare mosaici e affreschi e mantenere il microclima ideale. Come i maestri africani, i cinquanta restauratori hanno lavorato chini sui 120 milioni di tessere, ripulendole una per una della patina di finitura, che si è scoperto essere poi la causa della proliferazione di funghi, incrostazioni e microalghe, combinata con l’effetto serra della copertura. Ora resta il problema dei visitatori, nell’ultimo anno dimezzati rispetto alla media annua di 500 mila presenze a causa del cantiere infinito. Un calo di cui ha risentito non poco anche l’economia del luogo e l’indotto generato dal turismo. "Il nostro è stato uno sforzo enorme — dice l’assessore regionale ai Beni culturali Sebastiano Missineo — perché la Villa non è mai stata chiusa del tutto. Stiamo riconsegnando al mondo un sito più bello. E ci sarà anche l’opportunità di visitare la villa anche di sera, una suggestione straordinaria che speriamo contribuisca a riportare i visitatori ai numeri precedenti, anzi li superi". E Missineo, incurante dell’annuncio di dimissioni del governatore Lombardo per fine luglio, rilancia: "Il nostro obiettivo è di raggiungere almeno 600 mila presenze ogni anno".

venerdì 3 agosto 2012

Mille anfore del I secolo a.C. Nel sotterraneo antichi resti romani

Mille anfore del I secolo a.C. Nel sotterraneo antichi resti romani
IL TEMPO 03/07/2012


Il mercato di Testaccio custodisce un patrimonio archeologico venuto alla luce proprio durante i lavori per costruire la nuova struttura.

Sopra i banchi, che si estendono su una superficie di 5 mila metri quadri. Sotto la zona archeologica con mille anfore risalenti a un periodo che va dal I secolo a.C. al I secolo d.C. Ieri mattina, al termine dell'inaugurazione, il sindaco Alemanno ha voluto fare un piccolo tour nei sotterranei per vedere in prima persone le meraviglie resuscitate dall'antichità. Al momento questa area non è ancora aperta al pubblico. I lavori di restauro e la creazione di un percorso per i visitatori devono ancora essere portati a termine. Assieme ad Alemanno c'era l'archeologo Renato Sebastiani che ha spiegato: «Durante la realizzazione del nuovo mercato abbiamo ritrovato circa mille anfore da vino e salsa di pesce risalenti al periodo tra il I secolo A.C. e il I secolo D.C.: una sorta di discarica di anfore antiche, ma anche dei magazzini composti da muri di anfore. Il nostro obiettivo è rendere tutta l'area aperta e visitabile e pensiamo di metterci un paio di anni». Si tratta di una sorta di «discarica» di materiale di risulta dell'antico porto di Testaccio. Le anfore, una volta utilizzate per il trasporto marittimo, venivano accantonate e utilizzate per realizzare dei muretti.

mercoledì 1 agosto 2012

Gioielli e acquedotti, la vita segreta del Colosseo

Gioielli e acquedotti, la vita segreta del Colosseo
Laura Larcan
La Repubblica - Roma 27/7/2012
La nuova campagna di scavi porta in luce le tubazioni medievali e le fondazioni originarie
DA PALCOSCENICO per l’epopea dei gladiatori a residenza aristocratica, in cui le abitazioni erano dotate di un raffinato sistema di infrastrutture idrauliche. Il Medioevo ha segnato una vera e propria seconda vita per l’Anfiteatro Flavio, lontana dai fasti imperiali che ne avevano fatto una grandiosa macchina per spettacoli, e ancora quasi sconosciuta. È una storia legata alla presenza di inquilini illustri, i Frangipane; una potente famiglia antipapale che tra il XII e il XIII secolo scelse il Colosseo come roccaforte di prestigio per il controllo delle vie che portavano all’insediamento pontificio del Laterano. A svelarla è ora la squadra di 28 studenti universitari di Roma Tre, della Cattedra di archeologia urbana di Roma, che per quattro settimane hanno scavato al Colosseo nell’ambito della convenzione con la Soprintendenza per i beni archeologici. Sotto la guida scientifica della direttrice del Colosseo, Rossella Rea, e del professore Riccardo Santangeli Valenziani, l’operazione si è concentrata in una galleria sottoscala lungo il primo ordine del Colosseo, sul lato meridionale. «Qui è riemerso — spiega Santangeli Valenziani — un sofisticato sistema di raccolta e conservazione delle acque piovane, con canalette a due livelli che funzionavano da zone di decantazione per purificare l’acqua, che confluiva poi, con una cascatella di circa 50 centimetri, in una vasca usata come cisterna». Una scoperta preziosa, che fa luce sul livello di organizzazione della vita quotidiana del Colosseo dopo l’ingresso dei Frangipane, anche perché fino ad oggi non esistevano testimonianze di infrastrutture idrauliche di epoca medievale: «Tra l’XI e il XII secolo, l’utilizzo dell’edificio era solo episodico, con ambienti separati che venivano dati in affitto — avverte Rea — Invece con l’arrivo dei Frangipane l’Anfiteatro viene gestito per le esigenze di un grande insediamento aristocratico, con un proprio sistema idraulico ». Al punto che il palazzo della famiglia Frangipane occupava ben due livelli del monumento, per 18 gallerie. Nelle indagini al livello della pavimentazione originale non sono mancate le sorprese, come il ritrovamento di tre gemme databili al I secolo d. C.: una corniola finemente incisa con la figura di Apollo, un cristallo di rocca e un cameo di pasta vitrea. A una profondità maggiore, lo scavo ha rivelato anche le vertiginose strutture delle fondazioni originarie: sono riemersi giganteschi blocchi di travertino lunghi quasi due metri, e spessi 50 centimetri, che poggiano su un complesso sistema di due piattaforme alte complessivamente 13 metri. L’intera area scavata rimarrà a vista e, dopo la messa in sicurezza, entrerà a far parte del museo permanente del Colosseo. Quanto al restauro targato Tod’s, l’annuncio del sindaco Alemanno sull’avvio del lavori per il 31 luglio non è stato gradito al ministero dei Beni culturali, dove è stato giudicato uno «sgarbo istituzionale». Martedì prossimo, sottolineano infatti dal Mibac, non ci sarà affatto l’apertura del cantiere, ma una conferenza stampa nel corso della quale il ministro Ornaghi illustrerà il cronoprogramma dell’operazione insieme a Diego Della Valle e alla soprintendente Maria Rosaria Barbera, con la partecipazione del sindaco.

martedì 31 luglio 2012

Villa rustica romana scoperta nei campi a Muris di Moruzzo

Villa rustica romana scoperta nei campi a Muris di Moruzzo
Raffaella Sialino
Messaggero Veneto - Udine 28/7/2012
Sta terminando la seconda campagna di scavi archeologici. Il Comune già pensa a un sentiero che collega i vari siti
MORUZZO. Sta tornando alla luce un'antichissima villa rustica di epoca romana. Nella cittadina collinare è iniziata, infatti, la seconda campagna di scavi archeologici che interessa l'area del vasto complesso residenzial-produttivo di epoca romana — la zona interessata è una zona agricola — già parzialmente indagato lo scorso anno in località Muris ricadente nel territorio comunale di Moruzzo, nei pressi della strada che da Moruzzo conduce a Colloredo di Monte Albano. Le ricerche, rese possibili anche grazie all'interessamen-to della Regione, sono nate, su concessione del ministero per i beni e le attività culturali, da una stretta collaborazione tra l'amministrazione comunale guidata dal sindaco Roberto Pirrò e la Società friulana di archeologia-onlus, società operante in zona attraverso la neonata sezione del Friuli Collinare; le ricerche, inoltre, hanno potuto contare sulla disponibilità del proprietario dell'area interessata, il signor Lerusso. L'équipe archeologica che sta lavorando sul sito, coordinata dall'archeologo dottor Massimo Lavarone, può contare sulla partecipazione entusiasta di un nutrito gruppo di volontari e studenti dell'area collinare che hanno scelto di trascorrere parte delle loro vacanze fornendo il proprio contributo alla campagna di scavi. Nell'area, tenuta a prato negli ultimi decenni, oggetto della ricerca, come si diceva, sta emergendo dunque una vasta serie di resti murari appartenenti a una cosiddetta "villa rustica" di epoca romana. In particolare gli scavi stanno riportando alla luce un'articolata struttura ad uso produttivo caratterizzata da vari ambienti, forse destinati a granai, depositi e stalle. Quadro tipico di una domus romana probabilmente risalente all'età augustea. I materiali (tra cui resti di anfora e chiodi in ferro), laterizi e ceramiche, rinvenuti lo scorso anno, per ora, fanno collocare l'inizio dell'utilizzo dell'insediamento nelle prime fasi della romanizzazione del Friuli (I e II secolo dopo Cristo), a cui è seguita una fase critica durante il III sec. d.C., e fanno pensare che successivamente, a giudicare da scarsi ma significativi resti di ceramica importata dall'Africa settentrionale, l'insediamento sia sopravvissuto fino al tardo impero. Al termine dei lavori, che si protrarranno ancora per tutto il mese di luglio, a cura dell'amministrazione comunale di Moruzzo sarà organizzata una visita guidata per accompagnare la popolazione alla scoperta di questo interessante sito. L'obiettivo del Comune è quello di potenziare l'area, creando magari un sentiero archeologico che colleghi questo ad altri siti di particolare interesse del territorio.

lunedì 30 luglio 2012

Solo gli antichi romani l'avevano vista così

Solo gli antichi romani l'avevano vista così
LA SICILIA 04 Luglio 2012

Solo gli antichi romani l'avevano vista così. Ci sono voluti sei anni di lavoro ma ora che il restauro della Villa del Casale di Piazza Armerina è terminato, mosaici, intonaci e ambienti di questo patrimonio dell'umanità, restituiscono emozioni e suggestioni di un mondo che non c'è più ma che la Sicilia ha saputo conservare. Dopo l'inaugurazione, prevista per oggi, in cui sarà possibile ammirarla in notturna grazie alla sua nuova illuminazione, la Villa romana sarà finalmente riconsegnata al pubblico in maniera definitiva. salvo cataldo, vincenzo prestigiacomo2-3


Salvo Cataldo
Palermo. Più di 120 milioni di tessere da mosaico sistemate lungo una superficie di 4.100 metri quadri, 340 metri di passerelle installate e un'equipe di lavoro formata da 50 giovani restauratori, provenienti da tutta Europa, che hanno lavorato chirurgicamente per far tornare alla luce uno dei gioielli del patrimonio culturale siciliano.
Sono i numeri del restauro della Villa romana del Casale di Piazza Armerina, in provincia di Enna, conclusosi dopo sei anni di lavori. A partire da questa sera, con la riapertura ufficiale prevista per le 20.30, la villa, inserita dal 1997 nell'elenco dei siti Unesco patrimonio dell'umanità, ritornerà pienamente fruibile ai turisti. L'anteprima dell'inaugurazione si terrà alle 18,30, con un concerto presso il teatro Garibaldi di Piazza Armerina, poi, in serata, il taglio del nastro della rinnovata Villa.
L'intervento, costato complessivamente 18,2 milioni di euro, è stato presentato ieri, a Palermo, nella sede della Presidenza della Regione siciliana. Il progetto di recupero, firmato dall'architetto Guido Meli, è stato finanziato attraverso i fondi del Por Sicilia 2000/2006. L'opera è stata appaltata nel novembre del 2006, mentre i lavori sono stati consegnati definitivamente il 25 ottobre del 2007. In questi anni il sito ha dovuto fare i conti con i lavori di restauro e l'accesso al pubblico è stato fortemente limitato. Adesso saranno possibili anche le visite notturne, mentre a settembre saranno attivati una serie di percorsi dedicati ai visitatori con disabilità fisiche e ai non vedenti.
Il percorso all'interno della rinnovata Villa del Casale si srotola lungo un sistema di passerelle aeree, all'interno delle sale coperte dalla nuova copertura lignea che ha sostituito la vecchia struttura, realizzata da Franco Minissi a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta. I lavori sono stati ultimati, ma presto i restauratori potrebbero tornare a Piazza Armerina per recuperare anche le terme, il triclinio e il giardino antistante la villa. I fondi, circa sette milioni di euro, sono già stati individuati: si tratta di risorse Poin (Programma operativo interregionale), che in questi giorni sono al centro di un confronto tra Regione siciliana e ministero del Turismo.
«Siamo di fronte a un fatto di portata storica - ha affermato il presidente della Regione, Raffaele Lombardo -. Verrà restituito alla fruizione dei turisti di tutto il mondo uno straordinario pezzo del nostro patrimonio artistico e culturale». Sulla stessa lunghezza d'onda anche l'assessore regionale ai Beni culturali, Sebastiano Missineo, che ha alzato l'asticella delle previsioni per il numero dei visitatori: «La Villa del Casale, che in questi anni ha subito delle forti limitazioni per via dei cantieri, apre finalmente in maniera integrale - ha sottolineato - e sarà il cuore di un grande distretto greco-romano che comprenderà anche il sito di Morgantina. L'intero comprensorio rappresenterà un grande polo di attrazione turistica e passerà dagli attuali 270mila visitatori annui a seicentomila. L'obiettivo finale, nel triennio, è quello di raggiungere quota ottocentomila visite».
Alla presentazione del restauro ha partecipato anche il critico d'arte Vittorio Sgarbi, che nel ruolo di commissario ha guidato il recupero della Villa: «Dopo tanti anni, e dopo pressioni enormi, si conclude positivamente questo percorso - ha spiegato Sgarbi -. Adesso l'obiettivo è completare il restauro delle parti esterne con questi ulteriori fondi Poin». Il sindaco di Piazza Armerina, Carmelo Nigrelli, ha ricordato "i grandi vantaggi" che scaturiranno dal restauro: «In tanti non avrebbero mai voluto vedere la fine dei lavori - ha aggiunto - e invece, fortunatamente, eccoci qui. Enti locali e Regione hanno fatto squadra». La riapertura della Villa coinciderà con l'assemblea dei sindaci dei siti Unesco italiani. Durante l'incontro verrà lanciata una raccolta fondi in favore delle zone dell'Emilia colpite dal terremoto.