giovedì 28 agosto 2008

ROMA - i colli di Roma: in pericolo per i dissesti geologici; molti gli ambienti chiusi al pubblico

ROMA - i colli di Roma: in pericolo per i dissesti geologici; molti gli ambienti chiusi al pubblico
LUCA VILLORESI
GIOVEDÌ, 28 AGOSTO 2008 la repubblica - Roma

Questo non è semplicemente un luogo, uno spazio fisico racchiuso nelle coordinate di una mappa. Questo panorama appartiene alla metafisica topografica. Sembra un colle; ma in realtà è un concetto, una radice semantica. E, prima ancora che dalla salita che porta alla sua sommità, una visita al Palatino dovrebbe prendere le mosse dall´origine di una parola - il Palazzo - che su questo rilievo ha trovato la sua prima rappresentazione, concreta e simbolica. L´idea di una sede suprema del potere - dalla capanna di Romolo ai fasti imperiali - ha sempre fissato la sua residenza ufficiale sul Palatium: il re dei Sette colli. Incoronato all´atto stesso della fondazione da un´investitura di carattere temporale (l´istituzione della cittadella regia), ma anche spirituale, perché è l´intera altura a essere inaugurata come un tempio. Il segno di un destino che, secolo dopo secolo, strato su strato, ha concentrato in questi pochi ettari la più grande miniera archeologica del mondo. Paradossalmente ignorata da tanti romani che sul Palatino non sono mai saliti. È vero: si paga il biglietto d´ingresso. Ma, almeno una volta, bisognerebbe vagare tra queste rovine per prendere visione, in un colpo solo, di un intero trattato di storia romana.
«Ber bucio! Bella fossa! Ber grottino! Belli ‘sti serci! Tutto quanto bello!». Lo stupore, l´ammirazione, il disorientamento suscitati da uno spettacolo così ordinato e caotico, possono essere descritti in vari modi. C´è la meraviglia di Gregorio XVI in visita agli scavi del Foro - «Bene, diceva er Papa in quer macello» - sceneggiata dal Belli. Oppure, per andare sull´attualità, le contorsioni del turista anglosassone in sandali e calzoncini che, già ai primi passi della visita, batte i piedi per terra ripetendo in continuazione: «I fucking can´t belive it! I fucking can´t believe it!» (tradotto liberamente: «Cacchio, non ci posso credere! Cacchio non ci posso credere!»). Senza arrivare al culmine delle crisi estatiche contemplate dalla sindrome di Stendhal, bisogna ammettere che questo colle, accavallando ruderi e cronologie, ti circonda e ti frastorna; suscitando, a volte, qualche sentimento perfino nel cuore delle gite scolastiche. Un fascino dovuto all´incredibile accumulo di vestigia; ma anche, non c´è dubbio, alla cornice ambientale e a quel colpo d´occhio che ti proietta nel prototipo del classico «paesaggio con rovine». Un intreccio di arte, ingegneria, natura, dove l´ordine geometrico delle colonne, sconvolto e inselvatichito, segue il calendario di stagione, dal giallo delle ginestre al rosso dei papaveri.
Fino all´Ottocento l´appalto per la ripulitura del Palatino e dell´area dei Fori era ancora molto appetito. Chi si aggiudicava la gara guadagnava fieno, cicoria, asparagi e soprattutto una misticanza di prim´ordine (la rughetta migliore, tuttavia, stando alla tradizione, spettava alle Terme di Caracalla). La manutenzione del verde ha avuto le sue evoluzioni. Così come le mode degli alberi che, dopo le olmate papaline, hanno via via prediletto lecci, palme, cipressi... O i pini, tanto amati da Mussolini che li considerava un simbolo della romanità e che era intervenuto personalmente per salvare un esemplare (bellissimo, va detto, antifascismo a parte) che ancora domina la scena. Al di là degli interventi dell´uomo, coronati alla sommità del colle da quello che può essere considerato il primo orto botanico del mondo, gli Orti farnesiani, impiantati nel 1625, il Palatino ha però sviluppato una sua identità autonoma anche in materia di botanica. Malva e farfaraccio, rose canine e ranuncoli, capperi e pratoline. Ci sono piante - le chiamano vegetazione ruderale - che amano la decadenza delle civiltà. E le rovine del Palatino hanno dato vita a un habitat particolarissimo. Siamo al centro della città; ma il numero delle specie censite in quest´area è estremamente vario. Anzi, di più: variegato, come può esserlo l´incontro tra un corbezzolo portato dal vento del mare a uno storace volato chissà come dal Monte Gennaro.
«Mira colà quella scoscesa rupe e quei rotti macigni, e di quel colle quell´alpestre ruina, e quel deserto...». Il Palatino sembra occupare da sempre il centro della scena, geografica, letteraria, leggendaria. Si comincia dall´Enea virgiliano. O anche da prima, dall´antro di Caco, «mostro orrendo, ladron feroce, mezza fiera e mezzo uomo», ucciso da Ercole. Quando Romolo lo eleva al di sopra degli altri colli il Palatium è un rilievo arido, bitorzoluto, circondato dalle paludi, senza fonti d´acqua (per secoli ci si abbevera alle cisterne). Ma è in posizione strategica. Controlla i guadi dell´isola Tiberina e il Foro Boario, lo spazio del mercato. L´etimologia, anche quando il Palatino diventa il Palazzo, servito e riverito, continuerà comunque a rammentare ai posteri le umili origini della rustica progenie. La radice «pala», oltre che al termine altura, si collega a Pales, una dea pastorale. E la fondazione dell´Urbe, incentrata sul Palatium, avviene non a caso il 21 aprile: ricorrenza di una festa, chiamata Parilia, che segnava l´inizio dell´anno agricolo e pastorale. Il Palatino odora d´abbacchio. Ma non si accontenta di essere re. Si ammanta della porpora imperiale: Augusto, Tiberio, Caligola, Nerone, Domiziano, Settimio Severo...
A vederlo dalla parte delle radici il colle è tutto un rincorrersi di antri e cunicoli. Negli Orti farnesiani ogni tanto si apre una voragine. Uno degli ultimi crolli, accanto a un grande leccio, ha aperto improvvisamente una finestra su un enorme ambiente sotterraneo: un criptoportico, dove probabilmente fu ucciso Caligola. Si scende, tra puntelli e impalchi. «Scopriamo nuovi locali, gallerie, aree mai scavate che riscrivono la topografia del colle». Sul Palatino tutto è molto conosciuto, tutto è da scoprire. E la professoressa Maria Antonietta Tomei si muove tra monumenti sommersi e cassette di cocci, apparentemente insignificanti, ma a volte - basta un timbro su un laterizio, o il frammento di un´anfora - capaci di illuminare un´intera ricerca. La vita quotidiana degli archeologi del Palatino passa, tuttavia, anche per l´arte di arrangiarsi. Il colle è attraversato da un reticolo di dissesti, statici e geologici. Intere zone pericolanti sono state chiuse al pubblico. Il crollo è sempre in agguato, con una certa evidenza. Il criptoportico, a vederlo da sotto, sembra reggersi su un castelletto di travi stortignaccole, una zeppa qui e una zeppa là. E tutto il rilievo è un accavallarsi di ponteggi e transenne. Un cantiere continuo, dove da una parte si scava e dall´altra si consolida. «I finanziamenti che ci arrivavano dal gioco del Lotto però si stanno esaurendo. I fondi arrivano a singhiozzo. E così ormai possiamo solo tamponare le emergenze, senza programmi».
«Quello è l´arco di Tito? O di Settimio Severo? Dipende da dove siamo entrati. Da dove siamo entrati?». L´assenza di cartelli esplicativi è pressoché totale. L´esplorazione è confusa. Ma l´atmosfera del luogo, già completamente isolato dal traffico cittadino, non è turbata nemmeno dall´invadenza dello zelo didattico sponsorizzato. L´assenza di una sceneggiatura aumenta paradossalmente la scenografia: uno schermo sul quale proiettare una fantastica carrellata di trionfi e congiure, senza gli obblighi della precisione storica. Alla fine della scalata la visuale si allarga, circolarmente, sull´intero panorama cittadino. Il Gianicolo, il Pincio, l´Aventino, altre terrazze hanno le loro magnifiche prospettive; sempre orientate, però, in questa o quella direzione. Qui, a confermare la centralità del Palatino, il giro d´orizzonte è quasi completo. Per capire fino in fondo il Palatium, alla fine, bisogna però dargli un´occhiata anche dall´esterno. Scendere a valle, attraversare il Circo massimo, salire sull´Aventino. Ecco il colle vincente: una catena montuosa di archi, caverne, colonne. Assomiglia alle Dolomiti; ma è fatta di tufo, marmo, laterizio. E da tutti quei mozziconi di Passato, sparsi tra i prati, come margherite. «E guardate un po´ lì quer capitello... e guardate un po´ qui ‘sto peperino».
(7-continua)