domenica 18 maggio 2008

La Roma del '400 prestigiosa ma poco creativa

l'Unità 18.5.08
La Roma del '400 prestigiosa ma poco creativa
di Renato Barilli

AL MUSEO DEL CORSO una mostra, a cura di Strinati, documenta il ruolo che l’Urbe svolse nel XV secolo: la città fu più che altro un punto di arrivo, dove si andava spegnendo l’inventiva nata altrove

Merita ampio riconoscimento la bella attività che Claudio Strinati sta svolgendo nell’Urbe, nella sua qualità di soprintendente per il polo museale romano. Appena poche settimane fa ci siamo occupati della rassegna di opere canoviane che per suo merito è stata realizzata attorno al capolavoro dell’artista di Possagno, la Paolina Bonaparte, superba gemma incastonata nella Galleria Borghese. E in Palazzo Venezia è ancora visibile l’ampia retrospettiva dedicata a Sebastiano del Piombo. Ma ecco subito una nuova meritoria impresa, Il ’400 a Roma, che Strinati ha curato, con l’aiuto di M.G. Bernardini e M. Bussagli, per il Museo della Fondazione del Corso, tema da tempo non più affrontato, su cui di conseguenza appariva indispensabile riaprire il discorso.
Ciò detto e riconosciuto, il verdetto di fondo non può però mutare, il Quattrocento non è stato certo uno dei secoli più radiosi, per la Roma dei Papi, i centri di formazione delle proposte stilistiche più avanzate erano allora situati altrove, nella Firenze medicea o nelle capitali delle signorie, la Mantova dei Gonzaga, la Urbino dei Montefeltro, e in altre plaghe dell’Italia centrale e settentrionale, per la buona ragione, fondata sugli inevitabili intrecci tra la cultura materiale e le arti, che queste fioriscono laddove anche l’economia, i traffici, i commerci risultino floridi. Di fronte al rigoglio di altri centri italiani, la Roma dei Papi di quei tempi non era all’altezza, e non basta certo dare la colpa al lungo esilio dei Pontefici ad Avignone, il fatto è che nell’Urbe persistevano gli stessi motivi di insicurezza politica, per il soglio pontificio, minacciato dai poteri delle grandi dinastie nobiliari, che in fondo avevano consigliato la fuga avignonese. Era senza dubbio alto il prestigio della città di S. Pietro, pertanto gli artisti più reputati si sentivano altamente onorati a essere chiamati a lavorare entro le mura capitoline, molte esistenze si spinsero fin là a chiudere degnamente le rispettive carriere, ma appunto Roma fu allora, per tutto il secolo, un terminale d’arrivo, dove andavano a spegnersi onde creative nate altrove. Nulla di paragonabile a quanto l’Urbe diverrà poco dopo la svolta del 1500, per l’incidere di numerosi fattori, la politica aggressiva e di restauratio imperii intrapresa da Giulio II, il calo simultaneo delle signorie del Centro e del Nord, in caduta di potenza economica e militare, le aspre contese tra le due formazioni statuali di largo raggio, Francia e Spagna. Si dirà che la Roma papale era destinata a rimanere il proverbiale vaso di coccio, tra questi due giganti, con una persistente debolezza che avrebbe dovuto applicarsi anche agli esiti nell’arte. Ma, tra i due litiganti, il papato seppe erigersi come luogo di equilibrio e di compensazione, come ago della bilancia.
La mostra al Museo del Corso documenta assai bene questo ruolo di punto d’arrivo, che l’Urbe svolse nel Quattrocento, con la difficoltà aggiunta che le più alte imprese si svolsero sulle pareti di chiese e palazzi, dove bisogna recarsi per ammirarle, nel caso che non siano andate distrutte. Purtroppo un tale destino negativo ha inghiottito i vastissimi affreschi che, tra terzo e quarto decennio, avevano condotto in S. Giovanni in Laterano i due capofila del gotico internazionale, Pisanello e Gentile da Fabriano. A surrogare quel vuoto la mostra può fornire solo disegni, soprattutto del primo e della sua scuola. A Roma recitarono una delle scene della loro tormentata coesistenza Masolino da Panicale e Masaccio, ma di quest’ultimo è sparita ogni traccia. E invece vi giunse, e in qualche modo vi riassunse i suoi meriti, il Beato Angelico, che tra il 1447 e il 1455 dipinse in Vaticano, per il Papa di allora, la cappella Niccolina. Ma si tratta proprio di un riassunto, di un’epitome finale, di quel suo diligente allineamento di perfetti manichini, la cui matrice sta altrove, nelle cellette del fiorentino Convento di S. Marco. Forse Melozzo da Forlì, anch’egli formatosi a Nord, tra il Veneto, le Marche e la Romagna, riuscì davvero a far esplodere nel modo più pieno a Roma i suoi angeloni, gonfi, maestosi, rotondeggianti come palloni meteorologici. E poi, certo, a Roma convennero tutti i maggiori esponenti della terza generazione del Quattrocento, con Sandro Botticelli in testa, e poi il Perugino, il Pintoricchio, Cosimo Rosselli, e sembrarono chiamati a dare il meglio di sé nella cappella voluta da Sisto IV, la Sistina per antonomasia. Ma fu un canto del cigno, delle forme statiche, smunte, paratattiche che erano proprie di quella generazione, quando già tra i suoi membri sorgeva il talento ribelle di Leonardo. Sembrava un culmine, che in particolare il Pintoricchio disseminò in altre imprese parietali, nell’Appartamento Borgia, sempre in Vaticano, in S. Maria in Aracoeli. Ma la storia stava per voltar pagina, e in quella medesima Cappella Sistina di lì a poco si sarebbe manifestato il genio di Michelangelo, affiancato da quello raffaellesco nelle contigue Stanze vaticane. Si dirà che anch’essi erano nati e cresciuti altrove, ma ci volevano il nuovo volto, le nuove sorti di Roma, a far da crogiuolo, da luogo di fusione e diffusione. Solo da quel momento partiva la vocazione davvero centralizzante e universale, almeno per il mondo occidentale, di una Roma destinata ad essere egemone nell’arte per tre abbondanti secoli.