mercoledì 28 maggio 2008

Vaticano, gli splendori del mausoleo dei Valeri

IL GIORNALE, martedì 27 maggio 2008
Vaticano, gli splendori del mausoleo dei Valeri
Città del Vaticano - Neanche due secoli dopo la nascita di Cristo, un liberto della famiglia dei Valeri, uomo colto e padre di famiglia, si fece costruire un sontuoso mausoleo pagano nella necropoli vaticana, senza sapere di doverci seppellire per primi i due figli, di 4 e 12 anni, morti prematuramente per la peste che infuriava a Roma nel 166. I volti di Caio Valerio, della moglie Flavia Olympia e dei due figli Caio Valerio Olimpiano e Valeria Massima, sono riemersi con una bellezza ed espressività indenne alla scure del tempo, insieme a quelli di presunte divinità e altre figure, nello splendido mausoleo dei Valeri nei sotterranei del Vaticano, a due passi dalla Tomba di Pietro, grazie ad accurati restauri durati quasi un anno, costati circa 200 mila euro e appena conclusi. In una nicchia, anche alcune scritte attribuite agli operai che lavoravano all’antica basilica costantiniana, inneggianti a Cristo e al trono di Pietro, poco lontano, prova ulteriore, secondo la Fabbrica di San Pietro, della veridicità del sepolcro del fondatore della Chiesa. «I ritrovamenti della necropoli, anche quelli pagani, provano che la Basilica non sorge qui per capriccio - ha detto il presidente della Fabbrica di San Pietro, cardinale Angelo Comastri, presentando il mausoleo rimesso a nuovo - ma perchè sotto c’è una storia, che è stata conservata e tutelata con estremo scrupolo, ed è la storia dell’apostolo Pietro. Pietro - ha aggiunto - arrivato a Roma, morto durante le persecuzioni di Nerone, raccolto dai cristiani dopo la crocifissione, e portato nel punto dove attualmente sorge l’altare. Ora possiamo dire - ha proseguito il cardinale - che quel punto non è solo una calamita che attira il mondo, ma anche la giustificazione della presenza del Papa accanto alla tomba di Pietro». E così, secondo la lettura vaticana, anche le statue di Giove e Giunone finiscono per raccontare un percorso cristiano pur mantenendo, per l’occhio dell’archeologo e del restauratore, una loro bellezza che sembra sfuggire ad ogni attribuzione. Nella necropoli si alternano sepolcri restaurati ad altri ancora coperti dall’interramento costantiniano, facciate maestose costruite con raffinati criteri architettonici, decori scolpiti nella terracotta tinta in vari colori, mosaici e finti marmi. Nel mausoleo dei Valeri spicca una grande nicchia semicircolare con l’impronta di una perduta statua di un Dio, probabilmente trafugata già in tempi antichi. Ai lati altre due nicchie, con le statue di Minerva e un’altra dea, forse Diana o Giunone. Accanto alla triade divina, componenti della famiglia dei Valeri atteggiati come antichi filosofi e circondati da simboli di sapienza. Sulla statua di Hypnos, dio del sonno, due amorini con le stesse ali che reggono una cornucopia di semi di papavero. Il merito del restauro, svolto in ambiente sotterraneo con la poca aria incanalata dalle grotte vaticane e in spazi tanto ristretti da richiedere uno speciale tipo di laser, è di Franco Adamo e di Adele Cecchini, scelti per l’impresa dalla Fabbrica di San Pietro grazie all’interessamento della Fondazione pro musica e arte sacra, che ha ottenuto fondi da varie società tra le quali la Mercedes Benz. La necropoli vaticana, ancora in gran parte interrata e inesplorata, si può visitare, in piccoli gruppi di persone adulte, chiedendo una apposita autorizzazione alla Fabbrica di San Pietro.

Consiglio al nuovo sindaco. Caro Alemanno, rifai la Roma imperiale

Consiglio al nuovo sindaco. Caro Alemanno, rifai la Roma imperiale
di OSCAR GIANNINO
Libero 27 maggio 2008

Lettera aperta al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ieri insediatosi giurando in Campidoglio. E al suo assessore alla Cultura, Umberto Croppi. Non date retta ai melliflui consigli gialli d'invidia che vi vengono in questi giorni. Vi sconsigliano dal realizzare finalmente a Roma il Museo della Città, in fondo al Circo Massimo. 'Rimuovere il sarcofago dell'Ara Pacis di Richard Meier è sana ablazione. Ma come tutti i "no" è una semplice reazione. All'Urbe serve una realizzazione. Quella che da anni chiede il più grande archeologo di Roma antica, retrodatatore e riscrittore della storia capitolina con mirabili scoperte: Andrea Carandini. Per di più è di sinistra, lo sanno tutti. Come il professor Settis, che gli spara contro. (...)

Caro sindaco non temere Rifai la Roma imperiale
Alemanno deve realizzare il Museo della Città anche se è suggerito dall'archeologo di sinistra Carandini Non ascolti gli invidiosi
(...) L'ha scritto ieri sul domenicale culturale del Sole 24 ore, Salvatore Settis. Il direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa è arrivato al dunque solo zigzagando, cominciano con consigli alla Moratti per il dopo-Sgarbi, attaccando le luminescenze escogitate per il Cenacolo leonardesco da quel maniaco dell'immagine filmica barroco-malata che è Peter Greenaway, e conservativamente ammonendo che l'Expo 2015 milanese non si riduca in ciò che tutti qui si spera, cioè una straordinaria occasione di sviluppo, turismo e commercio, bensì si ritenga nei confini di un sobrio e ferreo rispetto della città com'è.
Poi s'è spostato su Roma con consigli ad Alemanno, dedicando righe al soave indirizzo naturalmente contrario a rimuovere la teca meieriana che brutta il Lungotevere e piazza Augusto Imperatore. Infine è giunto al tossico vero che conservava in cauda, il professor Settis. Perché mai perdere tempo dietro la balzana idea di un Museo della Città? Si vorrebbe forse, per ornarlo, depredare ulteriormente ciò che a cielo aperto con dovizia Roma ancora offre ai turisti, dei suoi antichi fasti monumentali e urbanistici? Si pensa forse, per conferirgli lustro, di saccheggiare ciò che di Roma antica accolgono i Musei capitolini o la Crypta Balbi, il Museo nazionale Romano o il Vaticano? Ma orsù, lo si chiami foglia di fico, se questo volete, e vergognatevi, conclude l'inclito scomunicatore indefesso. Che assai spesso è senza trattino, tra l'inde e il seguito, quando lancia i suoi strali verso questa o quella spoliazione del patrimonio artistico e monumentale italiano, del quale Settis nel tempo si è eretto a più che tribuno, una sorta di primo console.

COLPO BASSO
Ma stavolta il professor Settis ha il trattino, tra l'inde e il fesso. Perché, caro sindaco Alemanno, non è proprio possibile sopportarlo, da uno dei più considerati professori ordinari di Archeologia greca e romana, da un ex direttore del Getty Center for the History of Art and the Humanities di Los Angeles, da un membro del Deutsches Archaeologisches Institut, della American Academy of Arts and Sciences, dell'Accademia Nazionale dei Lincei e del Comitato scientifico dell'European Research Council. È vero che Settis ormai si dedica soprattutto a un profluvio di pubblicistica a carattere politico-civile. Ma non è ammissibile, un colpo tanto basso, da uno studioso di antichità romane. Perché Settis sa benissimo da chi e perché venga l'idea contro la quale spara vilmente, da dietro uno schermo. Settis sa che il Museo della Città non serve affatto a trasportarvi l'arco di Tito o quello di Costantino, o di Settimio Severo. Il Museo della Città serve a offrire a milioni e milioni di turisti una sede specifica che documenti e ricostruisca la nascita "vera" di Roma, attraverso plastici e stratigrafie, proiezioni assonometriche e software dell'ultima generazione.
Come si tentò una sola volta, dopo la Forma Urbis severiana di cui furono trovate solo tracce nel Tempio della Pace. E cioè negli anni Trenta con il plastico della Roma Imperiale realizzato per la Mostra Augustea della Romanità, in occasione del bimillenario della nascita di Ottaviano. Plastico oggi conservato, insieme ad altri anche di Roma ai suoi albori, in quel Museo della Civiltà Romana all'Eur che è inevitabilmente fuori da ogni circuito turistico centrato sul cuore dell'Urbe. E Settis sa benissimo che il Museo della Città serve perché è la storia della nascita di Roma ciò che finalmente conosciamo, grazie alle campagne di scavo e alla tenacia dell'allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli, il professor Andrea Carandini. E' Carandini, che ha ricostruito lo sviluppo del primo abitato secondo la storia evolutiva del suo potere centrale. E' Carandini che, attraverso etnografia e stratigrafia, esegesi storica e filosofla politica, in trent'anni di scavi ha zittito sotto prove schiaccianti tutta la storiografia su Roma accumulatasi, secondo la quale la Constitutio romulea attestata nell'Annalistica era solo un mito, e nulla in realtà era accaduto di veramente degno di nota a Roma prima del quinto secolo avanti Cristo e dell'età dei Tarquini, quando furbescamente si retrodatò di due-tre secoli miti fondativi e radici delle istituzioni dell 'Urbe, come in una colossale falsificazione storica.
Carandini da decenni, proprio con gli scavi accaniti nell'area del Palatino come alle Mura Serviane, alla Via Sacra del Foro come alla Casa delle Vestali, ha di fatto retrodatato le prime fasi della creazione dell'Urbe all'850 avanti Cristo, ben prima della nascita di Atene. Perciò, dico io, in un paese che abbia senso di sé e dell'importanza di una storia tanto mistificata, a Carandini ministri e sovrintendenti dovrebbero dare carta bianca. Non solo per tutte le altre campagne di scavo che da anni invoca per identificare i grandi siti ancora sconosciuti che hanno a che fare con la ricostruzione della vera storia della Roma più antica: il Tempio di Cerere, Libero e Libera sull'Aventino, la Casa di Servio Tullio sull'Oppio che evolverà poi in residenza di Sejano ai tempi di Tiberio. E il Tempio di Quirino: quello che solo grazie a tecniche di introspezione basata sulla riflessione delle onde magnetiche -non potendo scavare - Carandini ha rintracciato sotto il Quirinale, poco prima della scoperta del Lupercale.

IL GRANDE CENSIMENTO
È ancora da anni, che Carandini richiama la necessità di avviare un grande cen-simento di tutti i luoghi ancora nascosti dell'archeologia romana arcaica. Da anni, sottolinea l'insensatezza di una carta archeologica di Roma ferma a quella di Rodolfo Lanciani nel 1890. Da anni, chiede di scavare non solo al Foro e nelle aree dedicate, ma sotto i Palazzi del potére e le Chiese che a Roma nascondono vestigia preziose. E che richiama tutti i responsabili politici al controsenso di una Città che vantala civiltà che da essa per millenni si è irradiata, ma che non ha un Museo degno di questo nome e modernamente strutturato per milioni di turisti, costretti ad aggirarsi per il Foro senza neanche un plastico a portata di mano. A maggior ragione, dunque, si muova oggi il sindaco di Roma. Caro Alemanno, parliamoci chiaro. Se fosse stata idea sua, quella di un Museo volto a riconsacrare all'Italia la vera fondazione dell'Urbe, in molti avrebbero detto che era idea nostalgica e mussolinista. Ma no. L'idea è di quel geniaccio di Carandini, che ha pure scritto libelli anti-berlusconiani mischiando insieme la Constitutio romulea e Tocqueville. E allora dacci retta, carissimo sindaco. Salta in groppa al Museo voluto dall’antiberlusconissimo grande scavatore di Roma. Non prestare orecchio a Settis l'invidioso. Non meno antiberlusconiano di Carandini, ma assai più lieve di meriti in faccia a Roma. Fossi sindaco io, non solo farei il Museo, ma doterei tutti i turisti ai Fori di un visore multimediale con Gps incorporato, realizzato da un gigante dell'animazione elettronica come la Pixar. Per consentire a tutti di aggirarsi per la Via Sacra vedendo non le pietre attuali per nulla spiegate, ma il Forum e il Comitium com'erano agli albori e nei secoli, col tempio di Giove Feretrio sul Campidoglio, l'Auguraculum sacro a Giunone sull'Arce dove ora sorge l'Ara Coeli, e le prime partizioni della città in Curiae. Questa Roma è ancora da raccontare e rappresentare. Caro sindaco, tocca a te.

martedì 27 maggio 2008

Le proprietà imperiali nell'Italia romana

Le proprietà imperiali nell'Italia romana
Economia, produzione, amministrazione

Atti del Convegno Ferrara-Voghiera 3-4 giugno 2005
Quaderni degli Annali dell'Università di Ferrara, Sezione Storia 6
Le Lettere Editore 2007

Il volume raccoglie gli atti del Convegno internazionale organizzato nel giugno 2005 dal Dipartimento di Scienze Storiche dell'Università di Ferrara per approfondire un tema complesso nel quadro dell'economia dell'impero romano, quello della consistenza e dello sfruttamento dei beni fondiari di proprietà dell'imperatore.
L'argomento, analizzato limitatamente all'Italia romana comprendendo però la Sardinia, è stato trattato da alcuni fra i più qualificati studiosi italiani e stranieri sotto diverse angolazioni e in base a diverse metodologie: sono così stati forniti nuovi dati relativi all'evidenza e alla specificità delle proprietà imperiali individuate nelle diverse aree geografiche, sono stati considerati aspetti di storia locale nell'ambito più vasto dell'economia e della amministrazione dell'impero, sono state evidenziate attività manifatturiere e diffusione di prodotti con bollo imperiale, sono stati analizzati documenti attinenti procuratori o altri aspetti riguardanti la gestione delle proprietà del princeps. Ne risulta un quadro vasto e articolato, che senza la pretesa di essere esaustivo, costituisce un punto di riferimento su un tema non trattato in modo complessivo in anni recenti ma importante per comprendere l'organizzazione dell'impero romano.

ZANKER BOCCIA TESTA RODANO,"NON E' CESARE"

ARCHEOLOGIA: ZANKER BOCCIA TESTA RODANO,"NON E' CESARE"
26 MAGGIO 2008,

Berlino, 12:53

E' stata definita la piu' antica immagine di Giulio Cesare, l'unica statua del grande condottiero romano scolpita quando era ancora in vita. Ma ora un esperto ha escluso che la testa di marmo ripescata nel Rodano, nei pressi di Arles, in Francia, raffiguri il conquistatore della Gallia. In una dettagliata analisi pubblicata sulla Sueddeutsche Zeitung', il direttore emerito dell'Istituto archeologico tedesco di Roma, Paul Zanker, ha affermato che l'entusiasmo per il ritrovamento del francese Luc Luong e' assolutamente ingiustificato. "Il personaggio raffigurato non e' Cesare, ma un suo contemporaneo, che con il dittatore romano ha in comune solo il volto scarno e la calvizie incipiente", ha affermato. L'archeologo tedesco ricorda che "le uniche immagini sicure prodotte quando Cesare era in vita sono quelle raffigurate sulle monete", "un onore che non era mai stato riservato a nessun romano prima di lui".

l'articolo lo trovi su sito de la repubblica

sabato 24 maggio 2008

Nella tomba del piccolo romano anche i resti della sua pecorella

La Tribua di Treviso, 17 maggio 2008

Nella tomba del piccolo romano anche i resti della sua pecorella

Scoperta negli scavi archeologici in corso a Santa Lucia, la tomba di un bambino romano. All’interno, accanto alle ossa del piccolo , anche quelle di un ovino, quasi certamente una pecora, l’animale domestico a cui, secondo gli archeologi, il bimbo doveva essere più legato. Negli scavi, che riprenderanno nell’area adiacente, sono state ritrovare anche le fondamenta di una casa e vari laterizi.

giovedì 22 maggio 2008

Nave romana nel molo Sabaudo nei fondali da più di duemila anni

SARDEGNA - Nave romana nel molo Sabaudo nei fondali da più di duemila anni
Il Sardegna 22/05/2008

Gli operai stanno riportando in superficie anche alcune anfore e il resto del materiale
Nei fondali del porto giace una nave romana da 2 mila e 200 anni. L’hanno trovata gli operai al lavoro sotto il molo Sabaudo. In questi giorni una squadra dell’archeologo sub Nicola Porcu, in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni archeologici, sta riportando alla luce del sole le anfore e il resto del materiale che ha trascorso 22 secoli sotto il mare. La scoperta risale a qualche settimana fa, ma la notizia è stata diffusa soltanto da pochi giorni. Questo spiegherebbe il motivo dei rallentamenti delle operazioni del molo Sabaudo. Ora la Soprintendenza, dopo aver accertato la presenza del relitto, ha dato il via libera alle indagini e la ditta OT sub. Secondo le prime indiscrezioni la nave si troverebbe a una decina di metri di profondità e dovrebbe risalire al II secolo avanti Cristo. Non si sa nulla sullo stato di conservazione. Non è stato appurato neppure se il relitto potrà essere completamente portato in superficie. Certa, invece, la presenza di anfore che, con delicatezza, i sub stanno riportando a galla e che un domani potranno fare parte delle esposizioni museali cittadine. Le numerose anfore farebbero pensare ad un'imbarcazione per i traffici commerciali. Se la nave dovesse risalire ai primi secoli avanti Cristo, si tratterebbe del periodo, prima dell’espansione romana in Egitto e Nordafrica, in cui il grano sardo (che i romani di allora consideravano di qualità eccellente) veniva sfruttato per rifornire la città di Roma e le truppe impegnate sui numerosi fronti militari. Di qui la necessità di collegamenti veloci e continui con l’isola per i rifornimenti di frumento. In quest’ambito economico potrebbe rientrare il relitto trovato nei giorni scorsi la molo sabaudo. Non è la prima volta che il porto cittadino regala sorprese. E altre ricchezze ancora potrebbero celarsi sott’acqua. Aspetti che mettono in evidenza come lo specchio di mare davanti a via Roma, sfruttato anche in età fenicia-punica si possa rivelare lo scrigno schiuso di tesori di inestimabile valore.

domenica 18 maggio 2008

Carandini "Pronto a collaborare” anche con Lupomanno

ROMA. Carandini "Pronto a collaborare” anche con Lupomanno
Marina Valensise
Il foglio, 17/5/2008

Oggi nasce la Giunta di Roma. Parla il grande archeologo

Roma. La giunta è pronta. Il sindaco Alemanno la presenta oggi a mezzogiorno, e nell’attesa ferve la speculazione sui programmi, i progetti e tentativi di discontinuità.
Gli assessori, fra cui alcuni tecnici e molti politici, come Umberto Croppi alla Cultura, però non parlano: silenzio fino al 26 maggio, quando si insedia il Consiglio.
Ma si sa già che il nuovo sindaco manterrà alcune strutture, cambiandone altre, come la Festa del cinema su cui sta lavorando Pasquale Squitieri. Bisognerà assegnare alcune poltrone chiave, per esempio il Museo d’arte contemporanea di Roma (Macro), che dopo gli ultimi dissidi difficilmente andrà a Vittorio Sgarbi; l’azienda speciale Palaexpo, che riunisce via Nazionale e le Scuderie del Quirinale; il Teatro dell’Opera e l’Argentina, uno dei più antichi d’Europa.
“E’ una macchina complessa”, ammette Croppi, ma si limita a promettere la restituzione della capitale "al ruolo di attrattore di cervelli, artisti, intellettuali". Col patrimonio storico-archeologico millenario di cui dispone non sarà difficile. Si tratta di capire cosa farà la nuova giunta con gli intellettuali già arruolati da Rutelli e Veltroni. Uno di questi è l’archeologo Andrea Carandini. Il fautore del metodo stratigrafico con cui ha scoperto cose sensazionali come la capanna delle Vestali, le mura romulee al Palatino, lo studioso capace di attrarre migliaia di persone alle sue lezioni (la prossima il 5 settembre al Campidoglio sarà sui Tarquini e Servio Tullio) guarda con molta attenzione al nuovo corso. "L’archeologia non è né di destra né di sinistra", dice il professore della Sapienza, e aggiunge: "Da tecnico, sono pronto a collaborare".
Presidente della commissione ministeriale per digitalizzare il patrimonio archeologico nazionale, Carandini conosce bene l’ordinamento barocco che presiede all’opera di tutela, dividendo le competenze tra soprintendenze di stato e comuni, spesso in concorrenza tra loro. "Un patrimonio simile è ingestibile se affidato ad archivi polverosi e inaccessibili. Occore un sistema informatico, un cervello archeologico, per garantire un’opera conoscitiva, di tutela e dì comunicazione". In Europa la digitalizzazione è un fatto acquisito, spiega Carandini, Da noi, invece, è agli inizi e per mandarla in porto serve la collaborazione tra università, ministero e comuni. Uno sforzo di Sisifo, certo, ma i benefici sarebbero enormi. "Roma - spiega infatti Carandini - è una delle poche capitali d’Europa sprovvista di un museo che ne spieghi le origini, lo sviluppo. I nostri musei, pensiamo al Massimo, a Palazzo Altemps, al Museo Borghese, derivano dal collezionismo sei-settecentesco, ma non riescono a raccontare il romanzo, l’avventura della città e la sua storia. Puntando sull’informatica e il virtuale, si potrebbe creare quel Museo di Roma e del suo territorio che ci manca e farne un portale per la visita al Foro, ai siti archeologici disseminati in periferia. Renderemmo le rovine comprensibili non solo alle masse di turisti cinesi e indiani prossimi venturi, ma a noi stessi". E in più, riusciremmo a "potenziare un turismo intelligente, finanziando la ricerca attraverso la comunicazione".
L’idea suona avveniristica, ma è a portata di mano. "Bisognerebbe razionalizzare, unificare, ma anche decentrare" insiste Carandini, che immagina succursali del Museo a Tor Pignattara, dove venne sepolta sant’Elena, a Gabi, centro importantissimo, per spiegare senza sforzo che quel territorio era parte fondamentale dell’antico suburbio.
Molte cose sono ancora sconosciute infatti, e il mistero riguarda anche il centro città, la casa di Augusto, l’area sopra sant’Anastasia, lo stesso Circo Massimo, creato dai Tarquini nel VI secolo a.C e per mille azuii teatro delle cerimonie romane. "Servirebbe una strategia, dieci grandi obiettivi da realizzare piano piano, consolidando l’esistente", dice Carandiní. "In fondo, l’unico tentativo di capire la forma della città antica fu il plastico di Gismondi esposto al Museo della civiltà romana. Ideato negli anni Trenta, potrebbe diventare il punto di partenza per un museo del tutto nuovo in armonia con la cultura del XXI secolo". E in più, l’edificio esiste già, in via dei Cerchi; una postazione strategica, accanto al Palatino e a due passi dal Foro, per lanciare ricostruzioni virtuali dell’antica Curia, del tempio di Romolo, della casa di Livia e ridare così vita a Roma caput mundi.

La Roma del '400 prestigiosa ma poco creativa

l'Unità 18.5.08
La Roma del '400 prestigiosa ma poco creativa
di Renato Barilli

AL MUSEO DEL CORSO una mostra, a cura di Strinati, documenta il ruolo che l’Urbe svolse nel XV secolo: la città fu più che altro un punto di arrivo, dove si andava spegnendo l’inventiva nata altrove

Merita ampio riconoscimento la bella attività che Claudio Strinati sta svolgendo nell’Urbe, nella sua qualità di soprintendente per il polo museale romano. Appena poche settimane fa ci siamo occupati della rassegna di opere canoviane che per suo merito è stata realizzata attorno al capolavoro dell’artista di Possagno, la Paolina Bonaparte, superba gemma incastonata nella Galleria Borghese. E in Palazzo Venezia è ancora visibile l’ampia retrospettiva dedicata a Sebastiano del Piombo. Ma ecco subito una nuova meritoria impresa, Il ’400 a Roma, che Strinati ha curato, con l’aiuto di M.G. Bernardini e M. Bussagli, per il Museo della Fondazione del Corso, tema da tempo non più affrontato, su cui di conseguenza appariva indispensabile riaprire il discorso.
Ciò detto e riconosciuto, il verdetto di fondo non può però mutare, il Quattrocento non è stato certo uno dei secoli più radiosi, per la Roma dei Papi, i centri di formazione delle proposte stilistiche più avanzate erano allora situati altrove, nella Firenze medicea o nelle capitali delle signorie, la Mantova dei Gonzaga, la Urbino dei Montefeltro, e in altre plaghe dell’Italia centrale e settentrionale, per la buona ragione, fondata sugli inevitabili intrecci tra la cultura materiale e le arti, che queste fioriscono laddove anche l’economia, i traffici, i commerci risultino floridi. Di fronte al rigoglio di altri centri italiani, la Roma dei Papi di quei tempi non era all’altezza, e non basta certo dare la colpa al lungo esilio dei Pontefici ad Avignone, il fatto è che nell’Urbe persistevano gli stessi motivi di insicurezza politica, per il soglio pontificio, minacciato dai poteri delle grandi dinastie nobiliari, che in fondo avevano consigliato la fuga avignonese. Era senza dubbio alto il prestigio della città di S. Pietro, pertanto gli artisti più reputati si sentivano altamente onorati a essere chiamati a lavorare entro le mura capitoline, molte esistenze si spinsero fin là a chiudere degnamente le rispettive carriere, ma appunto Roma fu allora, per tutto il secolo, un terminale d’arrivo, dove andavano a spegnersi onde creative nate altrove. Nulla di paragonabile a quanto l’Urbe diverrà poco dopo la svolta del 1500, per l’incidere di numerosi fattori, la politica aggressiva e di restauratio imperii intrapresa da Giulio II, il calo simultaneo delle signorie del Centro e del Nord, in caduta di potenza economica e militare, le aspre contese tra le due formazioni statuali di largo raggio, Francia e Spagna. Si dirà che la Roma papale era destinata a rimanere il proverbiale vaso di coccio, tra questi due giganti, con una persistente debolezza che avrebbe dovuto applicarsi anche agli esiti nell’arte. Ma, tra i due litiganti, il papato seppe erigersi come luogo di equilibrio e di compensazione, come ago della bilancia.
La mostra al Museo del Corso documenta assai bene questo ruolo di punto d’arrivo, che l’Urbe svolse nel Quattrocento, con la difficoltà aggiunta che le più alte imprese si svolsero sulle pareti di chiese e palazzi, dove bisogna recarsi per ammirarle, nel caso che non siano andate distrutte. Purtroppo un tale destino negativo ha inghiottito i vastissimi affreschi che, tra terzo e quarto decennio, avevano condotto in S. Giovanni in Laterano i due capofila del gotico internazionale, Pisanello e Gentile da Fabriano. A surrogare quel vuoto la mostra può fornire solo disegni, soprattutto del primo e della sua scuola. A Roma recitarono una delle scene della loro tormentata coesistenza Masolino da Panicale e Masaccio, ma di quest’ultimo è sparita ogni traccia. E invece vi giunse, e in qualche modo vi riassunse i suoi meriti, il Beato Angelico, che tra il 1447 e il 1455 dipinse in Vaticano, per il Papa di allora, la cappella Niccolina. Ma si tratta proprio di un riassunto, di un’epitome finale, di quel suo diligente allineamento di perfetti manichini, la cui matrice sta altrove, nelle cellette del fiorentino Convento di S. Marco. Forse Melozzo da Forlì, anch’egli formatosi a Nord, tra il Veneto, le Marche e la Romagna, riuscì davvero a far esplodere nel modo più pieno a Roma i suoi angeloni, gonfi, maestosi, rotondeggianti come palloni meteorologici. E poi, certo, a Roma convennero tutti i maggiori esponenti della terza generazione del Quattrocento, con Sandro Botticelli in testa, e poi il Perugino, il Pintoricchio, Cosimo Rosselli, e sembrarono chiamati a dare il meglio di sé nella cappella voluta da Sisto IV, la Sistina per antonomasia. Ma fu un canto del cigno, delle forme statiche, smunte, paratattiche che erano proprie di quella generazione, quando già tra i suoi membri sorgeva il talento ribelle di Leonardo. Sembrava un culmine, che in particolare il Pintoricchio disseminò in altre imprese parietali, nell’Appartamento Borgia, sempre in Vaticano, in S. Maria in Aracoeli. Ma la storia stava per voltar pagina, e in quella medesima Cappella Sistina di lì a poco si sarebbe manifestato il genio di Michelangelo, affiancato da quello raffaellesco nelle contigue Stanze vaticane. Si dirà che anch’essi erano nati e cresciuti altrove, ma ci volevano il nuovo volto, le nuove sorti di Roma, a far da crogiuolo, da luogo di fusione e diffusione. Solo da quel momento partiva la vocazione davvero centralizzante e universale, almeno per il mondo occidentale, di una Roma destinata ad essere egemone nell’arte per tre abbondanti secoli.

sabato 17 maggio 2008

il fascino romantico di giuliano l' apostata

il fascino romantico di giuliano l' apostata

La Repubblica — 28 luglio 2003 pagina 32 sezione: CULTURA

Con Giuliano, pubblicato nel 1964, Gore Vidal fissa una volta per tutte uno stile letterario fatto di humour, aneddoti, saggistica lieve e una straordinaria sapienza storica. La vita breve e veloce dell' imperatore romano si adatta perfettamente alla scrittura di Vidal, che nell' ascesa del monoteismo cristiano, a partire dalla morte di Giuliano, vede "la fine delle speranze di felicità umana". Genio militare, retore colto, alfiere di un ritorno ai valori dell' Ellenismo, Giuliano regna per quattro anni e cerca invano di opporsi al fiume travolgente del Cristianesimo, con il suo Dio crudele e l' odio per il corpo. Nel racconto vivacissimo di Vidal la storia dell' imperatore "apostata" si moltiplica in un gioco di specchi, attraverso gli occhi dei vecchi filosofi pagani Libanio e Prisco e dello stesso Giuliano, per il quale Vidal costruisce un memoir di finzione. Pubblicato a quasi quarant' anni dalla prima edizione, il romanzo mantiene oggi un' intensità straordinaria. Giuliano, col suo "fascino quasi romantico" (la definizione è di Vidal stesso), vive al di fuori del proprio tempo, simbolo di diversità, protesta, resistenza dell' individuo al conformismo culturale, politico, sessuale. Un modello di ribelle eversore dietro cui si nasconde lo stesso Vidal: omosessuale, polemista, scrittore rinascimentale, "radicale" perennemente sconfitto dall' American Way of Life.
ROBERTO FESTA

CREMONA: DA REGIONE LOMBARDIA 12 MILA EURO PER STUDI ZONA ARCHEOLOGICA

CREMONA: DA REGIONE LOMBARDIA 12 MILA EURO PER STUDI ZONA ARCHEOLOGICA

Milano, 16 mag. - (Adnkronos) - Ammonta a 12 mila euro lo stanziamento della Giunta regionale, su proposta dell' Assessore alle Culture, Identita' e Autonomie della Lombardia, Massimo Zanello, a favore dell'Universita' Statale di Milano, per la realizzazione del progetto "Ricerche a Calvatone, Cremona, archeologia e nuove tecnologie". Il progetto interessa il "vicus" (villaggio) romano di Bedriacum situato a due chilometri da Calvatone, in provincia di Cremona, posto in posizione chiave nella Pianura Padana alla convergenza tra la via Postumia, che univa Genova ad Aquileia, e il fiume Oglio, ove l'Universita' opera da 20 anni. Proseguira' la sperimentazione di nuove tecnologie di ricerca avviate nel 2007 e nate dalla collaborazione tra Universita' e Regione Lombardia.

Gli scavi di Calvatone saranno presentati e pubblicati integralmente utilizzando un supporto multimediale (cd/dvd) in modo da offrire al pubblico e agli studiosi una completa disamina del lavoro svolto con ampio supporto di disegni e fotografie. Si intende poi applicare tale metodologia anche alla ricerche svolte a Palmira, citta' carovaniera della Siria.

"Abbiamo accettato la richiesta di finanziamento presentata dall'Universita' di Milano - ha dichiarato l'assessore Zanello - per proseguire gli studi archeologici in quanto Bedriacum e' un antico centro della Gallia Cisalpina romana che ha restituito nel corso di questi anni resti di strutture abitative e reperti archeologici di grande importanza scientifica che lo rendono uno tra i piu' importanti in Lombardia".

venerdì 16 maggio 2008

Augusto, l' imperatore che «creò» la Cia

Augusto, l' imperatore che «creò» la Cia

L' intervista Rose Mary Sheldon, nel libro «Guerra segreta nell' antica Roma», mette a fuoco la nascita dell' intelligence
Augusto, l' imperatore che «creò» la Cia
«Suoi i primi 007. Ma il sacco degli Ostrogoti fu l' 11 settembre della città eterna»

«Il mestiere della spia? Forse è il più antico del mondo. Più della prostituzione. Perché anche la prostituzione necessita di qualcuno che vada a cercare clienti e ciò presuppone la raccolta di intelligence. Il più antico documento di spionaggio è stato rinvenuto a Shubat Enlil, in Siria, ex Mesopotamia». Rose Mary Sheldon si fa ritrarre in abiti militari. Perché vive e lavora al Virginia Military Institute, una delle istituzioni più prestigiose legate all' esercito americano. E da lì che studia e analizza la storia dell' antichità per trovare sorprendenti analogie con quella attuale. Come accade in Guerra segreta nell' antica Roma, il suo nuovo libro che viene presentato a Gorizia il 17 maggio. È vero che l' intelligence ha plasmato l' impero Romano? «La prima iniziativa adottata da Augusto nel fondare l' impero fu quella di creare la figura del Cursus Publicus, incaricato di portare l' intelligence politica e militare dalle province alla capitale e viceversa». Quali battaglie romane furono vinte o perse a causa delle operazioni segrete? «Direi tutte. Le battaglie più importanti della storia sono state attacchi a sorpresa, possibili quando sai dove si trova il tuo nemico mentre lui lo ignora. I romani persero la battaglia di Teutoburgo perché i germani avevano un' intelligence migliore». Quali furono gli errori fatali dello spionaggio romano? «I tredici anni spesi da Annibale in Italia abbondano di esempi. Egli batté le legioni romane sul loro territorio anche se alla fine vinse tante battaglie ma non la guerra. Resta da dire che l' unica versione della storia tramandataci è quella romana, nessuno sa quanto veritiera sia».

l'articolo completo sul sito del "corriere della sera"

GUERRA SEGRETA NELL'ANTICA ROMA

GUERRA SEGRETA NELL'ANTICA ROMA

di Rose Mary Sheldon

Collana: "LEGuerre", n° 46, Brossura, pagine: 478 Prima edizione "LEGuerre", maggio 2008, ISBN: 978-88-6102-021-4, prezzo: Euro 26,00 i.i., Note: TRADUZIONE di ROSSANA
MACUZ VARROCHI

note di copertina
Le attività di intelligence sono sempre state parte integrante degli affari di stato, tanto che senza di esse i Romani non avrebbero potuto edificare e salvaguardare il loro impero. Sia in età repubblicana che in età imperiale, i Romani furono consapevoli che, per difendere i confini, per controllare la popolazione, per tenersi al passo con gli sviluppi politici allìestero e per garantire la sicurezza interna del loro stesso Stato, occorreva disporre di un mezzo utile a raccogliere informazioni, di uno strumento in grado di orientare efficacemente le decisioni. La definizione di "attività di intelligence" in realtà include una vasta gamma di argomenti, solo approssimativamente legati alla messa in pratica di quelle arti da parte dei servizi di informazione dei nostri tempi.
L'Autrice usa il concetto moderno di "ciclo di intelligence" per rintracciare le attività segrete praticate dai privati cittadini, dalle istituzioni governative e militari. La varietà è ampia: spazia dalle attività di spionaggio e di controspionaggio alle azioni segrete, dalle operazioni clandestine allìimpiego di codici e di messaggi cifrati, fino ad altre tipologie di interventi, tutti affari di intelligence di cui è rimasta traccia documentata nelle fonti antiche.
Questo libro, oltre a demolire il mito secondo cui le attività di guerra segreta sarebbero unìinvenzione moderna, costituisce uno dei più documentati contributi alla ricostruzione della storia della Roma antica tra quelli prodotti dalla storiografia statunitense.

l'autore
Rose Mary Sheldon è professore al Virginia Military Institute dal 1993, e attualmente ne dirige il Dipartimento di Storia. All’Università del Michigan ha conseguito nel 1987 il Ph.D. in Storia antica e su questo tema ha pubblicato numerosi saggi. È membro dei comitati editoriali di "International Journal of Intelligence and Counterintelligence", "The Journal of Military History" e "Small Wars and Insurgencies". Tra i suoi ultimi libri, Spies in the Bible (Greenhill Books, 2007), e Operation Messiah: St. Paul, Roman Intelligence and the Birth of Christianity (con Thijs Voskuilen, di prossima pubblicazione presso Vallentine Mitchell).

CAPO MISENO: Una preesistenza sinora sconosciuta, non catalogata, ma che gli studi della Soprintendenza archeologica rendono realistica.

CAPO MISENO: Una preesistenza sinora sconosciuta, non catalogata, ma che gli studi della Soprintendenza archeologica rendono realistica.
14/05/2008 IL MATTINO

Una preesistenza sinora sconosciuta, non catalogata, ma che gli studi della Soprintendenza archeologica rendono realistica.

Potrebbe insomma trattarsi della antica Misenum, sede della flotta romana imperiale d’Occidente. L’autore della scoperta è Pio Anzalone, 62enne ingegnere elettronico in pensione che, dopo aver viaggiato per anni per la «3M», il colosso multinazionale dei rivestimenti industriali, si dedica sempre più spesso alle sue passioni: la nautica da diporto, la tecnologia e la cultura.

«Circa un anno fa - spiega - di ritorno da un'escursione in barca, avevo riscontrato con il sonar un relitto nel canale di Procida. Tornato a casa, provai a individuarlo con Google Earth. E zoomando nella zona, mi accorsi di questo strano reticolato sottomarino, con i tipici decumani, le strade, le mura squadrate. Di lì, ho cominciato ad approfondire la questione e sono giunto alla conclusione che, se non è una beffa del satellite…».

In effetti, la comparazione tra l'area di Miseno e quella, ad esempio, di Pompei lascia pochi dubbi sulla omogeneità delle tracce. L'istantanea indica tra Capo Miseno e Monte di Procida, ad una profondità variabile tra 10 e 40 metri, almeno due chilometri di resti murari. D’altra parte gli archeologi ritengono che da Pozzuoli a Lago Patria, per 500 metri dalla attuale linea di costa, vi sia stato lo sprofondamento del suolo. Ma come potrebbe aver fatto Google Earth a fotografare la città sommersa? La risposta è persino banale: «Google Earth non fotografa affatto - spiega Anzalone -. Del resto, si riescono a vedere i fondali del Mediterraneo. In realtà, si tratta di raggi infrarossi che, laddove il fondale è sabbioso, potrebbero aver penetrato ben oltre, restituendo le tracce delle mura romane. In quell’area, peraltro, a dieci metri dalla costa, sono state rinvenute tracce di mura, documentate in una tesi di laurea. E i pescatori della zona hanno spesso rinvenuto anfore e reperti risalenti ad epoca romana». Insomma, ce n’è abbastanza per suggerire un approfondimento. Oltre il satellite. Antimo Scotto

Ecco Giulio Cesare il suo vero volto riemerge da un fiume

Ecco Giulio Cesare il suo vero volto riemerge da un fiume
CINZIA DAL MASO
VENERDÌ, 16 MAGGIO 2008 LA REPUBBLICA

Nel busto la fronte è alta e il pomo di Adamo pronunciato. Non sembra un dio

ROMA - L´annuncio è trionfale: "Trovato il vero volto di Giulio Cesare". Si tratta di un busto di marmo emerso nei mesi scorsi dalle acque del fiume Rodano vicino ad Arles, città che il grande condottiero fece diventare colonia romana nel 46 a. C. Tanto basta, pare, a suffragare l´attribuzione degli archeologi francesi.

«È il solo ritratto di Cesare fatto quand´era ancora in vita», esclama Luc Long del Dipartimento di archeologia subacquea del Ministero della cultura francese. «Una scoperta sensazionale, unica in Europa», aggiunge il ministro Christine Albanel.

È sicuramente Cesare perché ha le caratteristiche dei suoi ritratti tipici, la fronte piuttosto alta e il pomo di Adamo pronunciato. Ma è un ritratto realistico perché non raffigura un volto idealizzato e in giovane età - come sono in genere i ritratti di Cesare giunti fino a noi, realizzati dopo la sua morte e la sua divinizzazione - ma il volto di un uomo sulla cinquantina con tutti i segni dell´età. Rughe e fronte stempiata.

Dunque fu fatto ad Arles negli anni della fondazione della colonia. «Scolpito per onorare Cesare come suo patrono», continua Long. Tutto quadra. Poi però, chissà quando, il ritratto fu gettato nel fiume assieme a un centinaio di oggetti, tra cui un´altra statua di marmo raffigurante Nettuno e due bronzi. Ed è riemerso solo l´autunno scorso, durante uno scavo che continuerà anche la prossima estate e promette di rivelare altre meraviglie.
Ma l´entusiasmo dei francesi non è condiviso da tutti. L´antichista Mary Beard, dal suo blog nel sito internet del Times, è categorica: "Cosa fai se sei un archeologo e trovi un bel ritratto romano sul fondo di un fiume? Tutti si interesseranno alla tua scoperta se dici di aver trovato Cleopatra o Nerone o Giulio Cesare".

Ma per Beard non vi è ragione alcuna per attribuire la statua a Giulio Cesare, né tantomeno per affermare che fu scolpita mentre lui era in vita. È un gioco vecchio, dice Beard, noto già a Henrich Schliemann che seppe convincere il mondo di aver trovato a Micene la maschera di Agamennone.

In realtà, un ritratto-tipo di Giulio Cesare non esiste.

Conosciamo le sue caratteristiche dalle monete, ma non sono troppo chiare. C´è però un aspetto generalmente molto marcato, il volto scavato con zigomi pronunciati, come appare chiaramente nel Cesare "Chiaramonti" conservato ai Musei Vaticani. E il volto di Arles non è affatto magro né ha le guance scavate. Forse è per questa sua "anomalia" che gli archeologi francesi hanno pensato a un ritratto più realistico di tutti gli altri. Ma c´è forse anche un´altra possibile spiegazione: che sia la statua di un nobile di Arles fattosi ritrarre "alla maniera di Cesare". Accadeva molto spesso, nelle città di provincia. Chissà.

RITRATTO DI GIULIO CESARE: quel ritratto, così realistico.....

RITRATTO DI GIULIO CESARE: quel ritratto, così realistico.....
ANDREA CARANDINI
VENERDÌ, 16 MAGGIO 2008 LA REPUBBLICA

Archeologia, fonte perenne di nuove fonti, che risolvono problemi e altri ne pongono, in un flusso ininterrotto di informazione che sempre cresce, ormai indominabile. Così dalle acque del Rodano ad Arles - Arelate, colonia cesariana del 46 a. C. - è emerso un ritratto di quegli anni che viene attribuito a Cesare e considerato l´unico coevo del discendente di Venere. Per la verità coevo sembra essere anche il ritratto da Tusculum conservato nel Castello di Agliè, che presenta una fisionomia più convincentemente cesariana, almeno alla luce dell´opinione visiva che ci siamo costruiti sui ritratti postumi e quindi sulle repliche.

Il problema sta nel fatto che i grandi fanno sempre la moda e i privati li imitano. Che si tratti di un personaggio rilevante di Arles, che cesareggia?

Ma potrebbe trattarsi anche di un ritratto molto realistico di Cesare, poco canonico, con la radice del naso infossata e rugosa, con l´espressione sopra pensiero (non particolarmente aristocratica e volitiva) e con un velo di amarezza nelle labbra.

Neppure manca un dettaglio di prammatica, che Svetonio rivela: "cercava di riportare dal vertice del cranio i pochi capelli sulla fronte".

Bisognerebbe confrontare il nuovo esemplare con le monete di Mettius, ma per questo servirebbe una fotografia profilo, che manca…

Presto per dire e ci vuol del tempo per studiare. Si tratta comunque di una scoperta importante, che fa pensare. Aspettiamo anche di conoscere il punto del ritrovamento nel fiume da considerare in relazione con la topografia antica della città ed anche di sapere quanto è stato ripescato dal fiume insieme al ritratto. Verranno poi le opinioni degli specialisti in iconografia - specializzazione ossessiva ma inevitabile - raramente univoche...

giovedì 15 maggio 2008

La moglie di Augusto fu molto amata dai sui sudditi anche se non mancarono pettegolezzi...

Liberazione, 13 maggio 2008
La moglie di Augusto fu molto amata dai sui sudditi anche se non mancarono pettegolezzi...

Una testa di Livia proveniente da Fayum, in Egitto

di Ivana Musiani
Capostipite di quella schiera (non troppo folta) di anzianissimi ben portanti che, intervistati dal giornalista di turno sul segreto della loro longevità, sono soliti attribuirne il merito al quotidiano bicchiere di vino, è niente meno che l'imperatrice Livia, moglie e consigliera di Augusto, già mezza divinizzata quand'era ancora in vita nonché dea a tutti gli effetti post mortem. A darne notizia, nella - probabilmente - più ampia biografia a lei dedicata (ben 554 pagine) è lo storico inglese Anthony A. Barrett, la cui familiarità con la Roma imperiale ha già prodotto un saggio su Caligola: The Corruption of Power e un altro dal titolo Agrippina: Sex, Power, and Politics in the Early Empire . Anche Livia (edizioni dell'Altana, 26 euro), non manca di sottotitolo, molto più lusinghiero però dei precedenti e che bene le si attaglia: La First Lady dell'Impero . Come conferma Luciano Canfora nella prefazione, Livia «fu percepita dai sudditi non solo come consorte del princeps ma compartecipe del potere», ruolo questo «accettato e approvato da Augusto».
Fu la vicinanza del suo villaggio al Vallo di Adriano l'attrazione fatale di Barrett per la Roma antica. Mentre la meta domenicale dei coetanei era la base locale della Royal Air Force, lui non si stancava di pedalare sino alla poderosa edificazione: l'ammirazione e la curiosità per quei remoti costruttori segnarono il suo destino. «Non credo sia possibile avere con l'antica Roma un legame tanto intenso quanto il mio», scrive nella prefazione, riconoscendo in Livia il personaggio che più lo affascina: «Il fatto stesso che sopravvivesse assolutamente incolume per più di sessant'anni nel cuore del potere romano, e quello probabilmente ancor più rimarchevole d'essere stata riverita e ammirata per molte generazioni dopo la sua morte, attesta la sua accorta capacità di guadagnarsi il sostegno, la simpatia e persino l'affetto dei contemporanei. Livia potrebbe così essere definita la First Lady di Roma in senso ampio, dato che nessuna donna romana prima o dopo di lei riuscì a ottenere rispetto e devozione più profondi e durevoli».
Sostiene ancora l'autore che quella imperiale «era un'epoca in cui il potere politico s'intrecciava con le risorse private e con un indiscusso, personale carisma». Un carisma, prosegue, che si identificava anche con lo stile di vita: a quello di Livia sono dedicati ampi capitoli che gettano una luce inedita sul personaggio e la sua epoca.
Per tornare al quotidiano bicchiere di vino, Livia era solita gustare una sola "etichetta", il Pucino, prodotto da un vitigno selezionatissimo, coltivato non lontano dalle foci del Timavo e che gli enologi, dopo molte ricerche, stimano essere l'odierno prosecco. Secondo Plinio, il Pucino possedeva virtù medicamentose, ragione questa non secondaria della propensione di Livia per questo vino. La moglie di Augusto fu infatti una salutista ante litteram, seguace delle dottrine di un famoso guru della medicina, Asclepiade, il quale oltre a prescrivere diete, esercizi passivi, massaggi, bagni e letti oscillanti, era un fervido assertore del consumo di vino, purché moderato. Anche Livia era solita confezionare pozioni con le erbe che coltivava personalmente nella sua villa di Prima Porta. Oltre al bicchiere di vino Livia consumava una dose quotidiana di inula , un'erbacea dai bei fiori gialli che cresce in tutta l'area mediterranea, le cui radici amarognole sono tuttora impiegate in farmacia e in liquoreria. Inutile dire che l'orto che circondava la casa di Prima Porta traboccava di questa pianta, e i romani avevano cominciato a farne grande uso seguendo il suo esempio. I rimedi naturali che ci sono pervenuti e di cui Livia era generosa dispensatrice comprendono tra l'altro una pasta dentifricia, un medicamento contro le infiammazioni alla gola e uno per alleviare gli stati di tensione nervosa. Le dosi erano meticolosamente prescritte in monetine come unità di peso: 2 denarii di oppio, 1 denario di coriandolo, 1 vittoriato (mezzo denario) di amomo, e così via.
Procurarsi tutti gli ingredienti raccomandati da Livia non era semplice: per realizzare quello contro le infiammazioni alla gola ne occorrono ben diciassette, tra cui «cenere di pulcini di rondine selvatica». Fosse nata nel Medioevo, di sicuro Livia non sarebbe sfuggita al rogo come strega. Nella Roma imperiale, grazie anche al ruolo che ricopriva, il massimo in cui poteva incorrere era il pettegolezzo: un pettegolezzo pesante, però, dal momento che, come riporta Luciano Canfora, «secondo Caligola le morti di Marcello, di Caio Cesare e di Lucio Cesare - tutti ostacoli all'ascesa di Tiberio, figlio di Livia e del suo primo marito - avevano a che fare con lei. La chiamava Ulixes Stolatus, Ulisse vestito da donna». Si tratta solo di dicerie, però: prove contro di lei non ce ne sono, anche se l'autore della biografia fornisce una spiegazione un po' maliziosa a quei pettegolezzi: «Poiché spettava alle donne la responsabilità principale del benessere familiare, era inevitabile che cadessero su di lei i sospetti in caso di morte procurata da problemi gastrici. Se Livia insisteva con i suoi sistemi di cura con i familiari, non si stenta a immaginare che potesse sorgere qualche diceria in seguito ad una morte per lei vantaggiosa. Non si dovrebbe sottovalutare la possibilità che la stravagante combinazione di erba melica (una graminacea, ndr) e cenere di rondine facesse più male che bene e che lei potesse avere contribuito a liquidare alcuni suoi pazienti, a dispetto delle sue migliori intenzioni». Però a Livia vennero mosse accuse di aver avvelenato Augusto semplicemente con i fichi della pianta che cresceva nella villa di Prima Porta, i cui bellissimi affreschi - tutti voli d'uccelli e luoghi boscosi - sono ulteriori conferme dell'amore di Livia per la natura. In ogni caso, Augusto morì serenamente, benedicendo la sua presunta avvelenatrice, con una frase che si direbbe il suggello d'un film d'amore d'una volta: Livia, nostri coniugii memor, vive ac vale (Livia, nel ricordo della nostra unione, vivi e stai bene).
E d'amore in effetti si trattò. Quando Augusto mise gli occhi su Livia, erano entrambi sposati, lei per giunta incinta del secondo figlio. Essendo la nuova unione rimasta infertile, la legge consentiva ad Augusto di chiedere il divorzio. Non lo fece, adottando i figli che lei aveva avuto dal precedente matrimonio, restandole fedele per tutta la vita e costantemente additando la moglie come un esempio da imitare.
Era bella Livia? Ovidio la descrive come una Venere col volto di Giunone. Nelle numerose statue che la raffigurano, Livia ha il volto piuttosto rotondo e quasi senza espressione. Nonostante il rango, non compaiono gioielli, né le vesti ostentano ricercatezze: un'eleganza, diremmo oggi, all'inglese. La lunga vita di Livia si svolse infatti all'insegna della compostezza e della moderazione, in gran parte voluta per mantenersi all'altezza del suo ruolo di First Lady. Quando la colpì la tragedia della morte del figlio Druso, andò in terapia (si direbbe oggi) dal filosofo Areo Didimo d'Alessandria, che con i suoi consigli l'aiutò a non perdere il controllo pubblicamente. Venne meno al suo contegno distaccato soltanto due volte: fu quando, trovandosi casualmente presente a due incendi, diede una mano a spegnere il fuoco.


13/05/2007

Cena all'antica

Il Gazzettino, 14 maggio 2008
SANTORSO. Cena all'antica

(vi.be.) Una cena a buffet con alimenti plurimillenari, cucinati e conditi con ricette della Roma antica, è stata organizzata per sabato (21.15) al Cinema archeologico all'aperto, dall'amministrazione comunale in collaborazione con le rete museale Alto Vicentino. Sarà una cena inusuale, che non mancherà di sorprendere, curata da Alessandra Toniolo, con degustazioni dimenticate nel corso dei secoli. La prenotazione è obbligatoria allo 0445.649510, entro stasera. Quota 5 euro (3 ragazzi). Contemporaneamente all'apertura del buffet sarà proiettato il film "Ercolano, gli scheletri del mistero" del regista Marco Visalberghi.

Un trésor archéologique exceptionnel mis au jour à Arles

Un trésor archéologique exceptionnel mis au jour à Arles
laprovence-presse , mercredi 14 mai 2008

Un buste de Jules César sauvé des eaux du Rhône

Un rêve d'archéologue. Trouver, à quelques mètres sous la surface de l'eau, un buste antique en marbre, c'est déjà exceptionnel. Mais lorsqu'il s'agit de surcroît du buste de Jules César, réalisé de son vivant, grandeur nature, découvert dans les eaux du Rhône à Arles, ville qu'il fondait en 46avant Jésus-Christ, là, c'est énorme. Pourtant, c'est bien la découverte que l'on doit aux services du Département des recherches archéologiques subaquatiques et sous marines - Drassm -, à l'automne dernier, à quelques mètres du quartier de Trinquetaille. "C'est un César très réaliste, marqué par le temps. On voit une calvitie naissante et ses traits sont durs", explique Luc Long, le "découvreur". "Il a probablement été jeté là après son assassinat."

Une exposition dans quelques mois
Ce n'est pas la seule découverte majeure effectuée par son équipe. Une statue de Marsyas, plus tardive (3esiècle après J.-C.) et une autre, de Neptune, ont aussi été retirées de la vase. D'autres fragments, témoignages de la richesse arlésienne, tels des chapiteaux corinthiens ou un autel, ont également été sortis du fleuve. Dans quelques mois (en 2009, à l'occasion d'une exposition), le Musée départemental Arles antique les présentera au public, en même temps que d'autres trésors, découverts eux aussi, au fil du fleuve : un casque de légionnaire, un glaive de bronze...

Un secret bien gardé
Septembre 2007-mai 2008: les fabuleuses découvertes ont été recouvertes quelques mois, par... le limon du ministère de la Culture. Propriétés de l'État, ces sculptures qui évoquent la richesse de l'antique Arelate, devaient être présentées lors de l'émission "Des racines et des ailes", tournée demain à Marseille et diffusée le 21mai sur les antennes de France 3. Sauf qu'il est difficile, même pour un ministère, de garder un tel secret: outre le fameux buste de César, une Victoire en bronze, sans doute destinée à un parement de marbre, a également été mise au jour. Alors pas question de s'arrêter en si bonne voie: très prochainement, de nouvelles fouilles vont avoir lieu sur deux épaves. En rêvant d'une autre pêche miraculeuse dans le Rhône.

Par S. Ariès et Ch. Gravez ( arles@laprovence-presse.fr )


Voici le fameux buste de l'empereur romain.
link

mercoledì 14 maggio 2008

Il maschilismo dei romani

La Repubblica 28.6.07
Il maschilismo dei romani
di Eva Cantarella

Anticipiamo parte del contributo di Eva Cantarella sulla condizione femminile nell´antica Roma pubblicato su National Geographic in edicola da oggi

Nei lunghi secoli della storia di Roma, la condizione femminile cambiò profondamente. Nel periodo più antico della loro città, infatti, i romani riservarono alle donne un ruolo ben preciso: mogli e madri, riservate, sottomesse ai loro uomini (padre prima, marito poi), caste prima del matrimonio, rigorosamente fedeli se sposate; e soprattutto, sempre, silenziose. Come dimostra la storia di un´antica divinità dal nome molto significativo, Tacita Muta. Prima di assumere questo nome, leggiamo nei Fasti di Ovidio, Tacita era una ninfa di nome Lara (dal verbo greco laleo, parlare), che, purtroppo per lei, un giorno ebbe la pessima idea di svelare alla sorella Giuturna l´amore che Giove nutriva per lei, rendendo vani i tentativi di seduzione del dio. Per punirla, Giove le strappò la lingua, e partire da quel giorno Lara divenne Tacita, e fu onorata come dea del silenzio. Una storia dal valore pedagogico molto chiaro, quella di Lara-Tacita: se aveva fatto cattivo uso della parola non era stato per leggerezza individuale, era stato perché era una donna. Inevitabilmente, per una caratteristica e un difetto tipicamente femminili. Tacere, dunque, per evitare di parlare a sproposito, era un dovere fondamentale delle donne, al quale molti altri si affiancavano: non contrastare i desideri degli uomini, non immischiarsi nei loro affari, non mettere mai in discussione il loro comportamento, e ovviamente, lo abbiamo detto, mantenersi "pudiche", la parola che a Roma indicava le donne che rispettavano la regola della castità se nubili e della fedeltà se sposate.
Cosa accadeva alle donne che non rispettavano questi doveri? Per quanto riguardava la pudicizia delle donne sposate, la risposta viene da una legge, attribuita a Romolo, che stabilisce i poteri del "tribunale domestico". Il marito giudicava con i parenti in questi casi: se la moglie aveva commesso adulterio o se aveva bevuto vino. In ambedue i casi Romolo concesse di punirla con la morte. Non solo l´adultera poteva essere messa a morte, dunque, ma anche la donna che beveva vino. Inutile dire che i tentativi di comprendere le ragioni di quest´ultima regola sono stati molti (...). Ma la spiegazione più convincente della regola è quella che ne davano i romani stessi: bevendo, le donne potevano perdere il controllo, commettere adulterio, e più in generale comportarsi in modo disdicevole: «La donna che beve vino», scrive Valerio Massimo, «chiude le porta alla virtù, e la apre ai vizi». Comunque la si interpreti, la regola è evidente e indiscutibile espressione del desiderio di controllare la popolazione femminile, imponendo una riservatezza che, accanto alle altre virtù femminili, prevedeva anche il dovere primario del silenzio. Per i Romani, la parola era virtù e privilegio maschile.

Il più antico busto di Cesare

Corriere della sera, 14 maggio 2008
risale al 46 avanti Cristo
Il più antico busto di Cesare
Ritrovati nelle acque del Rodano reperti storici tra cui una scultura dedicata al dittatore romano
ARLES (FRANCIA) – Nel Rodano i francesi ci pescano solitamente trote e lucci, ma quando a immergersi nelle acque sono gli archeologi subacquei, anziché gli ami, la pesca può essere miracolosa. Un team del Dipartimento subacqueo di ricerche archeologiche ha infatti riportato alla luce vicino al capoluogo provenzale un vero e proprio tesoro, di cui fanno la parte del leone un busto in marmo a grandezza naturale di Cesare e una statua di Nettuno.

CESARE VECCHIO - Christine Abanel, ministro della Cultura francese, non usa mezzi termini nel descrivere l'importanza della scoperta: «Alcuni reperti sono unici nel loro genere, come il busto di Cesare, che crediamo sia la sua più antica raffigurazione». Il busto è stato infatti datato dai ricercatori e risale al 46 avanti Cristo, anno in cui Arles divenne una colonia con la migrazione delle legioni usate nella campagna di Gallia. Rappresenta un Cesare attempato, con le rughe a solcare il già allora celebre viso, e anche questa è una particolarità degna di nota. Il 46 a.C. fu un anno particolare non solo per Arles ma anche per Cesare che, appena nominato dittatore per dieci anni, stava ultimando il testo del De bello civili mentre Cleopatra si trasferiva a Roma.

PROSSIMA ESTATE - Gli archeologi stanno ora studiando il busto per cercare di capire come sia finito in fondo al Rodano insieme a reperti di altre epoche storiche, come la statua di Nettuno che risale alla prima decade del primo secolo dopo Cristo e altri oggetti del periodo ellenico. E per capirne di più si immergeranno nuovamente nelle acque fluviali che toccano Arles nei prossimi mesi.

Gabriele De Palma

martedì 13 maggio 2008

Augusto: delitti imperfetti

Corriere della Sera 3.7.07
In «La prima marcia su Roma» Luciano Canfora svela misteri e strategie del futuro imperatore
Augusto: delitti imperfetti
La morte di due consoli gli spiana la via ma le lettere a Cicerone lo incriminano
di Dino Messina

L'uccisione di Cesare (44 a.C.) porta alla guerra civile
Nelle date dei dispacci c'è la conferma ai sospetti di Svetonio Il trionfo
Ottaviano diventa nel 31 a.C. il padrone dell'impero

Dieci anni. Tanto tempo è stato necessario a Luciano Canfora, uno dei nostri maggiori antichisti, per svelare un giallo storico: chi uccise nell'aprile 43 avanti Cristo i due consoli romani Irzio e Pansa, favorendo l'ascesa definitiva di Ottaviano al potere? Lo storico e filologo ci racconta il mistero e la sua soluzione in un saggio di dimensioni contenute, La prima marcia su Roma (pagine 90, € 12), che Laterza manderà in libreria giovedì prossimo. Canfora si è messo sulle tracce dell'assassino, oltre che attraverso i suggerimenti del concreto Tacito e dell'erudito Svetonio, studiando un gruppo di lettere di Cicerone che contenevano l'indizio principe. Ma di mezzo ci sono stati altri impegni editoriali — una vita di Cesare, La democrazia, il mastodontico
Papiro di Dongo, gli studi per sostenere le diatribe sul papiro di Artemidoro, un commento a Tucidide per un'edizione inglese — così la soluzione del giallo ha dovuto attendere.
Siamo in piena guerra civile. Giulio Cesare, ucciso dai congiurati guidati da Marco Bruto alle Idi di marzo del 44, ha indicato nel testamento come suo successore il giovane Gaio Ottavio, che da quel momento prenderà anche il nome del patrigno. Ad appena 19 anni, il futuro primo imperatore di Roma si trova ad arruolare un proprio esercito per contrastare il rivale Antonio, che intanto ha mosso le truppe verso le regioni cisalpine dove darà battaglia a Decimo Bruto, asserragliato nella fortezza di Modena. Nel marzo del 43 i consoli Irzio e Pansa partono con i loro eserciti verso il Nord in soccorso dell'alleato Decimo Bruto, che forse non uccise materialmente Cesare, come l'altro Bruto, Marco, ma certo il 15 di marzo del 44 ebbe la responsabilità di convincere il dittatore ad andare in Senato. Ottaviano non lo perdonerà mai, eppure in queste circostanze mostra una spregiudicatezza e una freddezza degna dei politici e condottieri più cinici e consumati: si allea con i repubblicani.
La scena a questo punto si concentra sul campo di battaglia, Forum Gallorum, oggi Castelfranco Emilia, dove — racconta Canfora — «il 14 aprile, all'alba, il distaccamento inviato da Irzio fu sorpreso dagli antoniani e spezzato in due. Carfuleno morì sul campo, Galba dovette battere in ritirata. Sull'ala sinistra dello schieramento Pansa fu ferito». In modo non grave, come ci racconta nelle sue lettere Cicerone, che di queste vicende viene informato nella maniera più rapida possibile, essendo egli la figura
più rappresentativa del Senato, l'uomo al centro di molte trame nella guerra civile. A parte il ferimento «non grave» di Pansa, le notizie arrivate a Roma sono tutte favorevoli ai consoli, così Cicerone in un lunghissimo intervento in Senato può chiedere che Irzio e Pansa provvedano ad innalzare «un monumento il più grandioso possibile» in ricordo della battaglia. A Ottaviano, che pure era presente sul campo, è riservata soltanto una semplice menzione. Canfora ci spiega che il grande oratore ha ricevuto le sue informazioni da un dispaccio firmato da Irzio, Pansa e Ottaviano e da una dettagliata relazione di Galba. Il racconto si riferisce al 15 aprile, ma in pochi giorni il quadro cambia radicalmente.
«Il 21 aprile — scrive Canfora — mentre Cicerone parlava in Senato si svolgeva una seconda battaglia e questa volta decisiva, sotto le mura di Modena». Teniamo conto che, perché i dispacci arrivassero a destinazione da questa zona della Cisalpina a Roma, occorrevano cinque giorni di cavallo, poco più di quattro se il messaggero ce la metteva davvero tutta.
Che cosa succede quel 21 aprile? Ce lo raccontano Appiano di Alessandria e lo stesso Ottaviano Augusto nella sua autobiografia. A Forum Gallorum erano caduti metà dei combattenti da entrambe le parti: «Perì per intero la coorte di Ottaviano. Solo pochi dei soldati di Irzio». Antonio «non intendeva più attaccare fino a quando Decimo Bruto, logorato dalla fatica, si arrendesse ». Ma Irzio e Ottaviano vogliono affrettare lo scontro e il 21 aprile costringono Antonio alla battaglia. In quella giornata senza esclusioni di colpi, Irzio viene ucciso nei pressi della tenda di Antonio. Ottaviano gli riserva subito esequie solenni. Ma sulla morte del primo console, già Tacito oltre un secolo dopo suggerisce che sia stato lo stesso Ottaviano a farlo liquidare e il più ficcante Svetonio che lo abbia fatto di sua mano. Entro ventiquattr'ore morirà anche Pansa, quantunque ferito leggermente. A questo punto entrano in scena le corrispondenze di Cicerone.
Quando apprende della morte dei due consoli, Cicerone in una lettera a Marco Bruto, contraddicendo il tono adulatorio usato pochi giorni prima, scrive: «Abbiamo perso due consoli, certo due buoni consoli, ma non più che dei buoni consoli ». La data di questa lettera è il 27 aprile. In una lettera di poco successiva, di Decimo Bruto a Cicerone, scritta verso il 10 maggio, si trova l'indizio decisivo. Decimo scrive che il 21 aprile non ha potuto inseguire Antonio perché non aveva né cavalieri né cavalli: «Non sapevo della morte di Irzio, non sapevo di quella di Aquila, non avevo fiducia in Cesare (cioè Ottaviano, ndr) finché non lo incontrai e parlai con lui. Così andò perduto il primo giorno (cioè il 22 aprile). Il successivo (23) mi manda a chiamare Pansa a Bologna. Mentre sono per via mi viene annunziato che egli è morto». Decimo rientra a Metabo. La scena che dobbiamo immaginare, spiega Canfora, «è che un messo di Ottaviano è partito immediatamente per bloccare Decimo e un altro alla volta di Roma per informare Cicerone, e che Cicerone già la sera del 27 è in grado di darne notizia a Marco Bruto». A questo punto un'ipotesi si impone, anche in considerazione dell'arresto del medico personale di Pansa: c'è Ottaviano dietro la morte dei consoli.
Intanto Decimo Bruto viene braccato e ucciso dalle truppe di Antonio e Ottaviano può cominciare la marcia su Roma. Il 9 maggio 43 si fa presentare al popolo da un tribuno della plebe come figlio di Cesare, in luglio oltrepassa il Rubicone, come già aveva fatto il suo padre adottivo, e mette sotto minaccia armata il Senato. Così il 19 agosto ottiene la nomina a console, accanto all'insignificante Quinto Pedio, nonostante abbia vent'anni e la legge romana ne preveda almeno il doppio per ricoprire quella carica.
Augusto, Livia e Ottavia in un quadro di Jean-Auguste-Dominique Ingres. A destra, «La morte di Cesare» di Vincenzo Camuccini La guerra

Tra Roma e Bisanzio lo spirito è lontano

l'Unità 16.9.07
Tra Roma e Bisanzio lo spirito è lontano
di Renato Barilli

IL TRAMONTO dell’età classica greco-romana in una mostra a Vicenza. Il passaggio dal naturalismo all’astrazione in una serie di reperti, stoffe e mosaici. Un’interpretzione «spiritualista» che non convince

Una mostra a Vicenza, Palazzo Leoni Montanari, affronta un tema epocale che davvero può essere detto, come suggerisce il titolo, seppure in termini un po’ generici, La rivoluzione dell’immagine. Si tratta infatti del processo, esteso per alcuni secoli, che vede il tramonto dell’età classica greco-romana, col relativo mimetismo avanzato, verso le forme secche e stilizzate che saranno proprie dell’età bizantina, e che domineranno l’Europa, a Est come a Ovest, per quasi un millennio, finché, all’alba del XII secolo d. C., nei nostri Comuni partirà una fase di nuovo recupero di immagini naturaliste, ovvero quello che in termini lati si può definire il Rinascimento. A costituire tutto il fascino e l’importanza di un simile processo sta il fatto che lo abbiamo rivissuto, tra il XIX e il XX secolo, quasi negli stessi termini. L’Occidente giunge alla fine dell’Ottocento mentre in genere coltiva ancora forme di avanzato naturalismo, ma poi nel giro di pochi decenni dà luogo ai vari processi astrattivi e schematizzanti che caratterizzano l’arte contemporanea propriamente detta. Quali sono i fattori che, nell’uno e nell’altro caso, hanno provocato mutamenti di tanto peso? Come si vede, la posta in gioco è altissima. A dire il vero, la presente mostra vicentina ne offre solo un assaggio assai ridotto, nel numero dei reperti proposti, ci vorrebbe ben altro, magari una di quelle favolose mostre che il Consiglio d’Europa produceva in passato, è curioso che di queste si sia interrotta l’apparizione, anche se il nostro continente ha fatto decisivi passi avanti verso l’unità. Inoltre, a inficiare la rilevanza di questa rassegna (a cura di F. Bisconti e G. Gentili, fino al 18 novembre, cat. Silvana) sta anche il sottotitolo, che mette in primo luogo «l’Arte paleocristiana tra Roma e Bisanzio», mentre, se si va a vedere, una buona metà dei reperti è di iconografia classico-pagana.
Forse il sottotitolo alquanto parzializzante è in linea con un assunto generale, della mostra ma anche di tante altre interpretazioni, per cui il passaggio dal naturalismo alla stilizzazione bizantina sarebbe provocato dall’avvento del Cristianesimo. Ma proprio le opere qui raccolte stanno a dimostrare che non è affatto così: l’implacabile processo che, a partire dal III secolo d. C. colpisce i vari reperti da statue e sarcofaghi, da mosaici e stoffe qui allineati, prescinde dalla tematica pagana o cristiana, accomuna i prodotti di entrambe le sponde, e dunque il fattore causante non è di ordine spirituale, bisogna cercare altrove, in quei fattori di ordine material-culturale che in genere si tende a trascurare. L’immane fenomeno che colpisce l’Impero romano in ogni sua zona e convenzione religiosa deriva da una «perdita del centro», Roma è sempre più lontana, crolla il sistema delle grandi vie di comunicazione che l’Urbe aveva saputo stabilire, di cui la resa prospettica delle distanze era lo specchio fedele. Ora, le genti non si spostano, ognuno vive dove il destino lo ha gettato, e dunque le immagini si fissano, si generalizzano. Forse si dovrebbe rovesciare il rapporto causa-effetto, non è la conversione ai valori spirituali del Cristianesimo a provocare quella forzata semplificazione delle immagini, ma al contrario si aderisce alla religione del Dio unico nel tentativo estremo di fermare il processo di localizzazione e frammentazione del vivere, di cui non si avvertiva il rischio finché aveva resistito l’autorità centrale dell’Imperatore romano.
Ma andiamo a esaminare le opere in mostra, per trarre conforto a una tesi del genere. Vi sono frammenti di sarcofago, appunto di tema classico, relativi al mito di Prometeo, al sacrificio di Ercole, ad Ulisse, o con scene pastorali arcadiche, tutti per lo più del III secolo, in cui è evidente la volontà dell’artefice di attenersi ai canoni classici di una buona e corretta plasticità, di un rispetto dell’anatomia dei corpi, eppure già lo spazio si schiaccia, le membra si smussano, le cavità sono ottenute col sommario ricorso al trapano. I difensori della tesi spiritualista osserveranno in proposito che non c’è da stupirsi, in quanto si tratta di un mondo ancora ligio agli «dei falsi e bugiardi», ma vediamo che cosa succede sull’altra sponda, nel corso del IV e V secolo. Ebbene, non è che ipso facto i nuovi temi della cristianità impongano il linguaggio ieratico e schematico che siamo soliti ricondurre a Bisanzio. Si veda, poniamo, il sarcofago Maiestas Domini, fine del IV, i corpi di Cristo e Santi tentano ancora di balzar fuori con piena tridimensionalità, ma viene meno una scala unitaria di grandezze proporzionate tra loro, la figura del Cristo domina, mentre gli Apostoli accanto si fanno piccoli piccoli, siamo cioè a metà del guado, non più a Roma ma non ancora a Bisanzio. Il che vale anche nell’ambito del mosaico, si veda una Testa di S. Pietro, della metà del V° secolo, tema che evidentemente non potrebbe essere più cristiano, ma l’anonimo compositore insegue ancora palpiti, tocchi cromatici di un naturalismo in via di decomposizione. Naturalmente un secolo dopo, nel corso del VI secolo, i giochi sono fatti, a Bisanzio come a Ravenna si impone ormai lo stile astraente dell’arte bizantina, il cui capolavoro, non dimentichiamolo, non è però di tema cristiano, come piacerebbe ai sostenitori della tesi spiritualista, bensì laico, trattandosi della parata dell’Imperatore Giustiniano, nel S. Vitale di Ravenna.

Chi è il tribuno della plebe, I capi popolo nell’antica Roma

La Repubblica 18.9.07
Chi è il tribuno della plebe: parla Luciano Canfora
I capi popolo nell’antica Roma
di Antonio Gnoli

Equivoci. Tra noi moderni è rimasta la traccia di Livio per cui il tribuno è colui che ripara i torti subiti dal popolo
Televisione. Il palcoscenico televisivo ha reso patetico il comizio in piazza. Il tribuno muore con la sua scomparsa

Per i libri di storia fu Menenio Agrippa, console romano, a favorire con il suo celebre discorso sulle disiecta membra, la nascita del tribuno della plebe. Era il 454 a. C. venticinque secoli dopo quel tribuno continua a sopravvivere sotto i riflettori, ma è un´altra cosa, avverte Luciano Canfora, rispetto al modello originale. C´è tribuno e tribuno, insomma. Quello antico restava in carica per un anno, ed era un magistrato. Dunque esattamente il contrario, si potrebbe dire, del tribuno moderno che è soprattutto un parolaio. Uno è dentro la mischia, l´altro ne è fuori. Uno cerca l´equidistanza, l´altro vuole l´avvicinamento al popolo. Ma allora perché chiamare "tribuni" sia gli antichi che i moderni? Canfora sostiene che parlare del tribuno antico equivale a entrare in un ginepraio giuridico di cui è complicato rendere conto.
Come nasce il tribuno romano?
«Diciamo che affonda le sue radici nel terreno non del tutto limpido del rapporto tra patrizi e plebei. C´è una tesi, discutibile ma che indubbiamente ha avuto successo tra gli storici: sostiene che patrizi e plebei sono due comunità ben distinte che danno vita a una magistratura antagonistica».
Sembra una distinzione ovvia.
«Lo è indubbiamente. Ma la plebe lotterà proprio per essere parificata ai patrizi. E questo obiettivo verrà realizzato con le leggi promulgate tra il IV e il III secolo avanti Cristo, con le quali si creano le premesse per una unica nobilitas».
Plebei e patrizi finiscono con il godere dello stesso rango?
«Famiglie patrizie e plebee godono degli stessi diritti. Tanto è vero che il tribuno non è più il baluardo della plebe contro i patrizi. Ma un´entità in grado di difendere sia gli uni che gli altri. Il tribunato diventa così una magistratura istituzionalizzata che difende gli interessi del popolo di Roma, il quale popolo non necessariamente è costituito solo dalla plebe».
Mi scusi, siamo abituati a caricare la parola "plebe" di significati legati allo sfruttamento e alla sofferenza. Lei sostiene che non è così.
«Sostengo che è tra gli errori più ricorrenti identificare la plebe con il popolo oppresso. La plebe romana è un´altra cosa. Una delle strutture su cui poggia la società romana è l´ordo senatorius, al quale, da un certo momento in poi, possono accedere sia i patrizi che i plebei. Questi ultimi non hanno nulla a che vedere con le classi oppresse. È un equivoco duro a morire. Anche Karl Marx vi cadde. Nelle prime righe del Manifesto egli fa un po´ di confusione quando afferma che patrizi e plebei sono oppressori e oppressi e perciò divisi dalla lotta di classe».
Come è stato possibile incorrere in questo errore?
«Noi leggiamo gli episodi dell´antica repubblica attraverso i resoconti di Livio e Dionigi da Alicarnasso, i quali vivono nell´età di Augusto, e quando raccontano quei fatti remoti riverberano su di essi i recenti conflitti sociali tra ottimati e popolari. Nella storiografia moderna è rimasta l´impronta liviana, per cui il tribuno è colui che ripara i torti che il popolo oppresso ha subito».
È il tratto che la modernità ha conservato. Ma il tribuno oggi è visto anche come un abile oratore. Era così anche alle origini?
«Nel tribuno romano parola e azione potremmo dire coincidono, in modo vibrante e chiaro. Il tribuno cioè esprimeva una posizione davanti al popolo. Ma non è un suo esclusivo requisito. Anche i consoli, gli altri magistrati parlano davanti al senato, ma anche davanti al popolo. Quindi un´oratoria popolare efficace esiste nell´antica Roma a prescindere dai tribuni».
La figura del tribuno tornerà a splendere con la Rivoluzione Francese.
«È vero, ma solo come metafora di ciò che quella figura era stata nel mondo antico. I grandi oratori del parlamentarismo francese sono tribuni che parlano davanti a un popolo che si accalca, urla, commenta, mentre all´Assemblea si sta deliberando. Danton fu un grande tribuno».
E Robespierre?
«Parlava come un ragionatore, in questo somigliava a un Togliatti. Danton era il vero trascinatore delle folle. Tra l´altro fu lui ad inventare il terrore e dopo che lo ammazzarono diventò un santo come Trotskij».
Lenin e Trostkji furono anche loro eccellenti tribuni.
«Lenin non possedeva una straordinaria oratoria. Trostkij era più dotato. Ma direi che grandi tribuni, fin dall´Ottocento, li troviamo tra i sindacalisti. Nel capitalismo ottocentesco, con i parlamenti che vengono eletti a suffragio ristretto, i lavoratori creano attraverso i sindacati le prime forme di contropotere. Sindacalisti sono quelli che sanno parlare meglio. Il sindacalismo moderno è storicamente il fenomeno che più somiglia al tribunato».
Anche Mussolini fu un tribuno d´eccezione. In che misura la macchina totalitaria ne esaltò le doti?
«Mussolini ebbe straordinarie doti oratorie che non necessariamente erano da porsi in rapporto con il suo ruolo di capo del fascismo. Schematicamente si può dire che movimenti popolari e populistici si servono dei grandi oratori».
Veniamo all´attualità. Il tribuno televisivo o che agisce attraverso i Blog che figura è?
«Non lo definirei tribuno. Il palcoscenico televisivo ha reso patetico il comizio in piazza. E il tribuno muore con la scomparsa della piazza. La comunicazione tv è velocissima e va scandita per formule. Si serve di tecniche diverse che creano stili e persone differenti. Se la parola tribuno è legata pur sempre alla sua collocazione antagonistica, è evidente che il nuovo modello che la televisione ci propone non può rientrare in quello schema. Il salto tecnologico, stilistico, culturale ha determinato una cesura rispetto anche al passato più recente. Il tribuno come lo abbiamo conosciuto è tramontato».
E chi ha preso il suo posto?
«Ritengo che il ciclo della democrazia rappresentativa che è iniziato all´incirca due secoli fa si è chiuso. Le nuove figure di cui vorremmo capire di più hanno aperto un nuovo ciclo in cui la tecnologia è l´elemento dominate. Non conosciamo le fattezze di questo ciclo né i suoi futuri protagonisti. Forse "tecnocrazia" è la parola più appropriata per descriverlo. Essa continua a tenere in vita i vecchi strumenti elettivi e rappresentativi, perché sono ancora un veicolo di legittimazione, ma sono stati del tutto snaturati. Inutile fare raffronti con il passato. Un filo si è spezzato».

SPQR: Sono Profughi Questi Romani

l'Unità 27.9.07
SPQR: Sono Profughi Questi Romani
di Alessandro Barbero

IL SEGRETO DEL SUCCESSO dell’impero romano? Il meticciato. L’aver allargato la cittadinanza ai «barbari». Una lungimiranza politica di cui lo storico torinese parlerà al pubblico domenica a Roma nella sua «Lectio di Storia»

L’impero romano era la creazione di un popolo di dominatori che in quanto soli detentori della cittadinanza godevano di tutti i diritti, e mantenevano gli indigeni delle province conquistate in uno stato di subalternità politica e giuridica. Essere cittadino romano significava disporre di privilegi molto concreti, come testimonia la vicenda, raccontata negli Atti degli Apostoli, dell’arresto di san Paolo a Gerusalemme: quando l’apostolo comunicò al comandante romano di possedere la cittadinanza, e per di più dalla nascita, all’ufficiale non restò che rimetterlo in libertà con tante scuse (non senza commentare amaramente: «per poter essere cittadino romano, io ho dovuto pagare una grossa somma di denaro»).
L’episodio dimostra che già al tempo dei primi imperatori la cerchia privilegiata dei cives Romani non aveva più connotazioni razziali: in tutte le province conquistate, l’opportunità politica consigliava di cooptare le élites indigene concedendo loro la cittadinanza, senza troppo preoccuparsi se si trattasse di principi mauri dalla pelle nera e dai capelli ricciuti o di ricchi ebrei dell’Asia Minore come appunto Saulo di Tarso. Qualche volta l’assimilazione falliva, come nel caso di quel Caio Giulio Arminio, cittadino e cavaliere romano, di cui Tacito ci dice che a sentirlo parlare si capiva che il latino l’aveva imparato in caserma, e che a un certo punto si mise alla testa dell’insurrezione germanica contro Roma, distruggendo le legioni di Varo nella Selva di Teutoburgo. Ma in generale l’allargamento della cittadinanza rappresentò uno dei segreti del successo dell’impero romano, come ben sapeva l’imperatore Claudio: per sconfiggere la resistenza dei senatori a una cooptazione di notabili gallici, ricordò loro che Romolo concedeva la cittadinanza ai nemici già il giorno dopo averli sconfitti, e che proprio per aver proseguito su questa strada Roma era diventata sempre più potente, mentre Atene, dove gli stranieri che venivano a vivere in città rimanevano meteci senza diritti, era finita malissimo.
Particolarmente importante sul piano quantitativo era il procedimento per cui gli indigeni, o addirittura i barbari d’oltre confine, che si arruolavano nei reparti ausiliari dell’esercito ricevevano in premio la cittadinanza romana, attestata dai diplomi di bronzo che gli archeologi ritrovano a migliaia in tutta Europa. L’esercito praticò sempre la politica della mescolanza, stanziando reggimenti di Arabi in Germania e di Africani sul Danubio, e contribuì a fare dell’impero un immenso melting-pot, in cui gente di tutte le razze e di tutte le religioni venne rifusa in un unico corpo politico e in un’unica cultura, quella ellenistica. L’editto con cui Caracalla, nel 212 dopo Cristo, concesse la cittadinanza a tutti coloro che abitavano nell’impero, e che ancora molto tempo dopo Sant’Agostino celebrava come «una decisione umanissima», può essere considerato la prima sanatoria della storia: l’idea che fra i sudditi dell’imperatore si potessero distinguere cittadini ed indigeni appariva ormai anacronistica.
A partire da allora, quanti venivano a vivere nell’immenso impero non ebbero più bisogno di un certificato per essere considerati cittadini: bastava risiedere sul territorio romano e riconoscere l’autorità dell’imperatore per avere gli stessi diritti di tutti gli altri. L’impero aveva fame di uomini, per coltivare i campi nelle province spopolate dalla guerra o dalle epidemie e per riempire i ranghi delle «fiorentissime legioni», e non si fece scrupolo di importarli in grande quantità, accogliendo profughi e immigrati e, se necessario, deportando intere tribù. Ai nostri occhi parrebbe che ci dovesse essere una grande differenza fra chi chiedeva asilo nell’impero e chi vi era deportato a forza, ma gli uffici che si occupavano di sistemare questa gente erano gli stessi e, in pratica, le condizioni di accoglienza finivano per essere molto simili: i barbari lavoravano duramente e pagavano le tasse, e i loro figli erano arruolati nell’esercito, finché, come si estasiavano i retori di Costantinopoli, non diventavano «in tutto uguali a noi».
Nella retorica governativa, l’impero romano dopo Costantino si presenta sempre più come la terra promessa di tutta l’umanità. Gli imperatori si rallegrano dei molti popoli che vengono a cercare «la felicità romana», e compiangono quelli che non hanno ancora avuto «l’occasione di essere romani». Questa è anche l’epoca in cui l’impero romano sta diventando cristiano, e naturalmente la Chiesa incoraggia questa politica di apertura universalistica: così come l’impero di Roma è destinato a governare il mondo, così la fede cristiana è destinata a diffondersi su tutta la terra. Il poeta Prudenzio si augura «che tutti i barbari divengano Romani», e che da stirpi diverse nasca un unico popolo, romano e cristiano.
Beninteso, questa ideologia dell’apertura universale si accompagna a un progetto di dominio mondiale, portato avanti con estrema brutalità: sono due facce, quella presentabile e quella meno presentabile, di una stessa politica di superpotenza. Mentre l’imperatore è adulato come «padre non solo del suo popolo, ma del genere umano», c’è chi realizza bei profitti speculando sull’importazione di manodopera per le caserme: le leggi sulla coscrizione parlano senza tanti infingimenti dell’«acquisto delle reclute» (tironum comparatio) e della «compravendita di immigrati» (advenarum coemptio). Le più grandi operazioni umanitarie di accoglienza di profughi, come l’ingresso dei Goti nel 376, diventano l’occasione per abusi di ogni genere, descritti con estrema crudezza dai cronisti contemporanei: fra generali che costringono i profughi a pagare le razioni fornite gratuitamente dal governo e ufficiali che approfittano della separazione delle famiglie per portarsi a casa le ragazzine. Pochi immaginano che proprio sulla capacità di gestire con successo la sfida dell’immigrazione si giocherà, di lì a poco, la sopravvivenza politica dell’impero romano.

Così nella Roma antica il Senato difese i privilegi

Corriere della Sera 28.9.07
Così nella Roma antica il Senato difese i privilegi
Gli oligarchi non esitarono ad uccidere il tribuno Tiberio Gracco
di Luciano Canfora

Chi cerchi di intendere cosa fosse, quanto pesasse e cosa significasse il Senato romano dovrebbe, credo, far capo a quella pagina mirabile in cui Appiano di Alessandria descrive la uccisione di Tiberio Gracco (estate del 133 a.C.). Lo scontro riguardava la rielezione del tribuno. Il Senato, interferendo pesantemente, attraverso suoi uomini fidati, nell'autonoma gestione di quel vitale organo di difesa popolare che doveva essere, in linea di principio, il tribunato, si opponeva.
Ed ecco i fatti. Quando i seguaci di Tiberio Gracco spezzano, armandosi di bastoni, il cerchio paralizzante dell'ostruzionismo procedurale degli avversari pilotati dal Senato, quest'ultimo decide di reagire con la forza. Lo storico alessandrino si chiede perché mai non abbiano fatto ricorso ad uno strumento estremo tipico dei momenti di crisi, quale la nomina di un dictator.
Invece il Senato vuole «dare una lezione» e, dopo una rapida seduta tenuta nel tempio di Fides, scende direttamente in battaglia, e si lancia nello scontro fisico, non senza aver fatto circolare la falsa voce che Tiberio si fosse fatto proclamare tribuno senza votazione. «Mossero verso il Campidoglio — scrive lo storico —. Li precedeva, primo fra tutti, il pontefice massimo, Cornelio Scipione Nasica, il quale urlava che tutti lo seguissero; e si era tirato intorno al capo l'estremità della toga». Con sarcasmo lo storico si chiede se ricorresse a quel gesto per rimarcare il suo rango di pontefice massimo, o per mimare l'elmo e incitare così ancor più alla lotta, o non piuttosto «per nascondere agli dei ciò che stava per compiere». Sintomatico è quel che accade subito dopo. I graccani arretrano, perché lui è il pontefice massimo, e perché dietro di sé ha quasi tutto il Senato. Allora i senatori, «strappate le spranghe di legno dalle mani dei graccani, li colpivano, li inseguivano, li gettavano giù dai dirupi. Molti perirono e lo stesso Tiberio Gracco, bloccato davanti al tempio, fu ucciso sul posto. Il cadavere suo e degli altri fu gettato nottetempo nel Tevere ». Il fotogramma dei graccani paralizzati e come ipnotizzati dall'autorità di questa orda di senatori inferociti e omicidi è una scena di per sé chiarificatrice dell'illimitata efficacia dell'auctoritas senatoria anche in situazioni estreme.
I senatori non erano del tutto nuovi a queste imprese se si considera che, secondo una tradizione nota a Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane), lo stesso Romolo era stato massacrato in Senato dagli stessi senatori, ormai persuasi che il suo governo fosse troppo «tirannico». Accusa fatale quella di «tirannide» (costerà la vita anche a Cesare), cui il Senato ricorre per bollare un leader e segnarne la condanna. Anche con Tiberio Gracco avevano utilizzato quell'accusa di «regnum» con cui facevano fuori gli avversari. Lo sappiamo da Plutarco (Vita di Tiberio Gracco) il quale dà un dettaglio in più, che dovrebbe meglio spiegare lo scatenamento belluino di Scipione Nasica: «I graccani — scrive Plutarco — si preparavano a respingere gli assalitori facendo a pezzi le aste con cui le guardie trattenevano la folla. Quelli che erano più lontani, stupiti, chiesero che cosa fosse successo. Tiberio, non potendo farsi udire, si mise una mano sulla testa, con un gesto che voleva significare pericolo. Ma gli avversari, a quella vista, corsero in Senato ad annunciare che Tiberio chiedeva la corona: ciò — insinuavano — significava quel gesto. Nasica chiese al console di venire in soccorso dello Stato abbattendo il tiranno ». E poco dopo partì alla carica, piegate rapidamente le perplessità del console, accusato di inadempienza ai suoi doveri.
Com'è chiaro dall'intera, lunghissima storia di questo potente organismo, fondato sulla cooptazione e sopravvissuto gagliardamente anche alla cosiddetta fine della Repubblica, il Senato romano aveva superato ben presto i limiti d'azione propri di un organo consultivo. E fu sempre più la vera sede decisionale: pronto a gridare al «tiranno» ogni volta che le altre forme di potere gli si sono parate dinanzi.
Negli ordinamenti arcaici, a partire dalla «gerusìa» omerica, un Senato è il tassello più importante. Mentre in Atene (dove le funzioni di tale organo sono proprie dell'Areopago) il potere si disloca via via altrove, è a Sparta che la «gerusìa » conserva — in stretta collaborazione con gli efori e con i re — il potere effettivo. I «geronti» (o «senatori») a Sparta venivano nominati per acclamazione: ma per rientrare tra gli eleggibili ci volevano requisiti quali l'appartenenza a determinate grandi famiglie, come si ricava chiaramente da alcuni passi della Politica di Aristotele. Dunque anche sotto questo rispetto l'accostamento tra ordinamenti romani e ordinamenti spartani, ricorrente nella riflessione costituzionale antica, appare pertinente. Polibio di Megalopoli, greco passato ai romani non solo perché prigioniero di guerra ma anche perché spiritualmente conquistato dal modello politico dei vincitori, ha descritto meglio di ogni altro l'ordinamento romano rappresentandolo come originale variante del modello spartano, e soprattutto come esempio — secondo lui imperituro — di «costituzione mista ». Costituzione, o pratica, in cui un corpo non elettivo ma di cooptazione, qual è appunto il Senato, assume il ruolo chiave nella dialettica tra esecutivo e massa popolare- elettorale. Polibio entrò in crisi quando il conflitto esploso intorno alle leggi graccane sembrò dimostrare che anche la «perfetta » macchina costituzionale romana scricchiolava. Ma noi, cui è toccato il privilegio di sapere «come è andata a finire», sappiamo ormai che il sistema misto ha vinto quantunque rivestito delle esteriorità o ritualità elettoralistiche che costituiscono un prezioso strumento di legittimazione per quei corpi tecnici, di competenti non certo di elettoralmente reclutati, nelle cui mani è il potere effettivo. Non più ostentato come al tempo di Scipione Nasica, ma al riparo dall'indiscreta «democrazia», e perciò tanto più (si può immaginare) durevole.

lunedì 12 maggio 2008

Archeologia e tecnologia. I colori della Colonna Traiana

Archeologia e tecnologia. I colori della Colonna Traiana
GIUSEPPE DELLA FINA
LUNEDÌ, 12 MAGGIO 2008 la repubblica - Cultura

Negli ultimi anni vi è stata una ripresa degli studi sulla policromia nelle opere d´arte antica. La ricerca si era incentrata finora su opere significative, ma non era arrivata a coinvolgere uno dei capolavori assoluti. Il salto viene effettuato ora analizzando la policromia della Colonna Traiana e riproponendola attraverso il ricorso a tecniche di illuminazione e quindi pienamente reversibili.

Le ricerche sui colori della Colonna Traiana hanno avuto in realtà un precedente: si tratta di un antefatto occasionale, ma che ha visto coinvolto uno storico dell´arte antica del valore di Ranuccio Bianchi Bandinelli. Nel corso di una trasmissione televisiva del 1972, l´archeologo, consapevole delle tracce di colore presenti sul monumento, presentò il calco della scena XXXII completamente dipinto.

Partendo da quell´esperienza e sulla base dei restauri degli anni Ottanta del Novecento, un gruppo di ricercatori – coordinati da Corrado Terzi e Maurizio Anastasi – ha presentato di recente a Ferrara un progetto per l´illuminazione cromatica del monumento.

Un esperimento che dovrà servire – nelle intenzioni dei ricercatori – a comprendere più in profondità il monumento stesso, il ruolo che svolgeva nell´ambito del Foro Traiano e, più in generale, l´immaginario della società romana di epoca imperiale. Le prime sperimentazioni dell´illuminazione policroma della Colonna Traiana dovrebbero essere proposte al pubblico entro un anno.

domenica 11 maggio 2008

Dalla prima alla seconda Roma. Una (dis)continuità ecumenica

Giuseppe Casale
Dalla prima alla seconda Roma. Una (dis)continuità ecumenica

Un teismo inclusivo

L’età moderna ha percepito la propria distanza dalla classicità, talvolta rivendicandola, talvolta deprecandola. Ma argomentando quasi sempre su fraintendimenti. Anche la cosiddetta “nostalgia dell’antico”, tra l’altro, si è ridotta a vagheggiare un comunitarismo nevrotico che, nella lotta alla liberaldemocrazia, travisa il senso dell’appartenenza. Di qui, la sindrome del nostro tempo: sia che si omologhi l’umanità intorno alle pulsioni elementari, sia che si perori una “metafisica dell’internazionalismo”, comunque si ignorano gli archetipi del vivere sociale. Sicché né le bombe, né i recenti fatti di Parigi, ci convincono a discutere di integrazione senza falsi pudori. A tal punto che, in clima di global age, non riusciamo ancora a capire cosa davvero implichino multiculturalismo, multietnicismo e via dicendo.

Diversamente, l’imperialità romana cercò di articolare le ragioni del conflitto, disinnescandole sul piano di una religiosità civile (non di Stato, giacché non dottrinale), rispettosa della complessità esistenziale, nella consapevolezza che una civiltà, per fiorire, necessita, al suo interno, di una naturale diversificazione nella compartecipazione. Non è un caso, infatti, se un Romano come Cicerone poté comprendere la parentela, significativamente etimologica (da legere), tra religio e lex[1]: due parole, un’unica matrice, colta nel momento (s)elettivo, implicante una scelta di tutti quegli elementi in grado di erigere la Città quale utopia: piuttosto che il non-luogo (ou-topos), il buon-luogo (eu-topos). Evidentemente, un popolo consta non di un’accozzaglia di uomini, ma di un insieme cospirativo riunito intorno alla legge, in virtù del con-sentimento dell’utile, quale sensorio – nonché ricaduta effettuale – del bene e del giusto[2]
...
l'articolo completo lo trovate su : http://www.sifp.it/articoli.php?idTem=3&idMess=490

Oltre il Gra le testimonianze degli avi

Oltre il Gra le testimonianze degli avi
S.S.
Il Tempo (Roma) 25/10/2006

L'INSEDIAMENTO rurale di via Gradoli è solo l'ultima delle numerose scoperte avvenute nel corso del 2006. A gennaio, in località Prati della Chiavichetta, durante gli scavi eseguiti per allargare la sede viaria dell'autostrada Roma-Civitavecchia, sono emersi ben 180 metri di un acquedotto realizzato a cavallo dell'anno zero, tra gli ultimi decenni del I secolo a.C. e i primi del primo d.C, un centinaio sul lato destro il resto oltre l'autostrada. La struttura approvvigionava la città di Porto collegando le sorgenti che sgorgavano dalle colline limitrofe alla Magliana con l'abitato in riva al mare ed è rimasto attivo fino al primo quarto del VI secolo d.C. La lunghezza complessiva dell'acquedotto, molto probabilmente, era di oltre 10 chilometri ma la struttura non era monumentale: le arcate non superavano i sei metri di altezza ed i materiali impiegati non erano di grande qualità. Lo scorso marzo, durante gli
sterri per la realizzazione delle fondazioni del nuovo centro commerciale di Via di Massimilla, presso il 13° chilometro della Via Aurelia sono state scoperte undici tombe ed un'abitazione romana di medie dimensioni del tardo impero, composta da una parte produttiva ed un'altra padronale-residenziale. Da una tomba particolarmente curata, appartenente ad una bambina romana di quattro anni, morta in un'epoca compresa tra il III e il IV d.C. è stata trovata una monetina, obolo da pagare per transitare verso i Campi Elisi, addossata ai resti del viso dell'infanta ed un braccialetto di bronzo. Ed ancora in primavera è nato un laboratorio didattico di archeologia nella villa romana di Monte delle Colonnacce nei pressi di Castel di Guido, sull'Aurelia, oggi frequentato giornalmente da gruppi di alunni delle elementari e medie romane.

Quei resti del Porto di Ripa Grande

Quei resti del Porto di Ripa Grande
CLAUDIO RENDINA
la Repubblica (Roma) 23/10/2006

SOLO due scalinate a forbice e una banchina rialzata. E' quanto rievoca il Porto di Ripa Grande ed è molto poco, insufficiente per dare sia pure una vaga idea del grande complesso portuale, segnato com'era da due torri e da una lanterna a mo' di faro sovrastante le banchine di ormeggio. Il retrostante palazzo del San Michele, fortunatamente ancora in piedi, non c'entrava nulla con il porto, al quale faceva solo da quinta spettacolare. C'erano piuttosto una serie di caseggiati a destra e sinistra della banchina, che erano destinati a magazzini di rimessa e alla dogana; tutti abbattuti per la costruzione dei muraglioni e del lungotevere alla fine dell'Ottocento.
Ma il complesso portuale proseguiva oltre l'attuale ponte Sublicio, nella zona al di là della porta Portese e a fronte della via Portuense. Qui era la località della Bufalara, dove sostavano le mandrie di bufali utilizzate per l'alaggio, ovvero il sistema di trasporto delle merci sulle navi mercantili che risalivano il corso del Tevere trascinate dalle funi tirate dai bufali. E l'alaggio restò in vigore anche quando arrivarono a metà dell'Ottocento le imbarcazioni a vapore, così che la zona della Bufalara era una sorta di prolungamento portuale al di là di Porta Portese, disteso dalla riva alla via Portuense.
La Bufalara era dove oggi si apre una serie di caseggiati in degrado, in gran parte rabberciati con strutture metalliche, officine più o meno abusive di meccanici e gommisti e depositi dei venditori del mitico mercato domenicale che si sviluppa sulla strada, ovvero scoperchiati e destinati ad accumulo di detriti di varia natura. Fino al civico 11, dove è il complesso dell'Arsenale Pontificio. Che era in sostanza l'ultima struttura del porto, l'unica oltretutto rimasta ancora in piedi.
L'arsenale attuale è frutto di tre precedenti costruzioni ed è rimasto fino ad oggi nella sua edilizia settecentesca, a due arcate a sesto acuto, destinata alla costruzione di grosse tartane da pesca e alla riparazione di barconi e chiatte. Fu restaurato da Pio IX nel1853, come indica lo stemma Mastai sovrapposto all'ingresso principale, mentre sul prospetto verso Porta Portese è lo stemma di Clemente XI. La sua funzione terminò con l'abbattimento del porto, anche perché con la costruzione dei muraglioni l'arsenale non ebbe più l'accesso al fiume; peraltro in diverse occasioni era stato utilizzato in funzione di deposito, come quando nel 1798, durante la repubblica giacobina, vi fu nascosta tutta la biblioteca del Vaticano.
Ai primi del Novecento vi s'insediò il cantiere Welby,
una ditta inglese che lavorava nel settore dei trasporti. Dopo la seconda guerra mondiale è stato usato come deposito di materiali per l'edilizia e, come tale, adibito fino ad oggi a rivendita di certi materiali, mentre la parte posteriore è occupata da rivenditori di biciclette. Sono molteplici i progetti realizzati per il suo recupero, tra l'altro per ricavarne uno spazio culturale ed espositivo. Staremo a vedere.