mercoledì 26 dicembre 2007

Cesare e i falsi liberatori

Cesare e i falsi liberatori
Corriere della Sera del 4 gennaio 2007, pag. 1

di Luciano Canfora

Cesare soleva dire che «la sua sopravvivenza fisica non era di suo personale interesse, al contrario interessava soprattutto la Repubblica»; «la Repubblica — precisava —, se a lui fosse accaduto qualcosa, sarebbe precipitata in guerre civili di molto più gravi delle precedenti». Certo, Cesare era ben consapevole della non infrequente presenza dell'attentato nella pratica politica romana.



Tiberio Gracco era stato ucciso in pubblico a sprangate da gruppi di senatori inferociti, e così suo fratello. Eppure Cesare, pur sapendo di essere esposto a rischi nonostante la sua lungimirante clementia, prese una iniziativa clamorosa: congedò la efficientissima scorta di soldati spagnoli che abi­tualmente lo proteggevano. E dopo pochi giorni fu ucciso, a tradimento, in Senato. Ventitré pugna­late di cui una sola mortale.



La sera prima dell'attentato, a cena presso Mar­co Lepido — Cesare era tra gli invitati — qualcu­no portò la conversazione sul tema: qual è il gene­re di morte preferibile? Cesare, interpellato, disse: «Ad ogni altra ne preferisco una rapida e improv­visa». Forse si trattò di un tortuoso avvertimento? La notte fu una notte di incubi, Calpurnia, sua moglie, sognò che il tetto della casa si sollevava e che il marito le veniva assassinato in grembo mentre le porte della stanza si spalancava­no. Cesare sognò di vo­lare in cielo e di stringe­re la mano a Giove. Nel turbamento conseguen­te ad una tale notte sta­va per decidere di rin­viare la seduta in Sena­to. Ma Decimo Giunio Bruto Albino, il congiu­rato che aveva il compito di stargli addosso sin dal mattino e che godeva della totale fiducia della vitti­ma designata, fece leva sul suo ben noto disprezzo per la superstizione. In tono laico-scherzoso co­minciò a farsi beffe degli indovini. Cesare si lasciò convincere. Lungo la strada verso il Senato—rac­conta Plutarco — un insegnante di greco di nome Artemidoro, amico di amici di Marco Giunio Bru­to (il pezzo più prelibato della congiura), gli mise tra mano un libello in cui gli denunciava la congiu­ra, di cui qualcosa era trapelato. Ma Cesare non potè leggerlo. Intanto i congiurati erano già in Senato. Un tale si avvicinò a Casca (uno dei congiu­rati, quello che doveva colpire per primo) e gli sibi­lò: «Tu ci nascondi il segreto, Casca, ma Bruto mi ha rivelato tutto», lasciandolo di sasso. Popilio Lenate si avvicinò a Bruto e a Cassio e disse a brucia­pelo: «Prego perché possiate compiere l'impresa che avete in mente. Vi esorto a far presto. La cosa ormai è risaputa». Quando Cesare giunse, i venti e passa congiurati gli si strinsero intorno fingendo di voler caldeggiare una supplica, ma all'improvvi­so cominciarono a colpire. Avevano paura. Ca­sca, come d'intesa, colpì per primo, ma Cesare, pur ferito di striscio al collo, afferrò il pugnale e lo tenne fermo. Allora entrambi — narra Plutarco —cominciarono a urlare, Cesare in latino: «Scelle­rato Casca, che fai?». E lui, in greco, volgendosi al fratello: «Fratello, aiutami!». Cesare si difese co­me una belva ferita, finché Bruto, che forse era figlio suo e di Servilia, sua amante, lo colpì all'in­guine. Allora si coprì per morire composto, ben sapendo, come lo sapeva anche Socrate morente, che la morte è brutta da vedersi. Era il 15 marzo del 44 a.C. Quasi nessuno degli assassini — nota Svetonio — gli sopravvisse più di tre anni e nessu­no morì nel suo letto. La Curia in cui Cesare era stato ucciso venne murata e le idi di marzo proclamate «giorno del parricidio». Né fu più lecito convocare il Senato in quel gior­no. Anni dopo Augusto preferi­va andare in Senato con la coraz­za sotto la toga, visto che nell'oli­garchia romana poteva sempre allignare il tipo umano del «libe­ratore». A conclusione del suo piccolo libro su Cesare, dettato a Sant'Elena al fido Marchand (gennaio 1819), Napoleone scri­ve: «Immolando Cesare, Bruto ha obbedito ad un pregiudizio educativo che aveva appreso nel­le scuole greche. Lo assimilò a quegli oscuri tiranni delle città greche che, col favore di qualche intrigante, usurpavano il potere. Non volle vedere che l'autori­tà di Cesare era legittima perché necessaria e protettrice, era l'ef­fetto dell'opinione e della volon­tà del popolo». Cesare aveva ri­fiutato la corona, offertagli for­se provocatoriamente da Anto­nio durante i Lupercali pochi giorni prima dell'attentato. Sapeva che le parole più invise, nel linguaggio politico romano, erano rex e regnum. Non avrebbe mai commesso quell'er­rore, non sarebbe mai caduto in una tale trappola. Sapeva però anche che i vecchi ordinamenti di Ro­ma «Città Stato», testa di un impero territoriale immenso, non erano più all'altezza della nuova realtà geografica, amministrativa, politica. «Roma» ormai, anche giuridicamente ed elettoralmente, coincideva con l'Italia intera, e l'Italia era una pic­cola parte, ancorché privilegiata, di un sistema di province e di eserciti oltre che di strutture ammini­strative-imperiali: dalla Spagna al Nordafrica dai Balcani alla Mesopotamia. L'oligarchia dei gran­di latifondisti che costituivano il Senato, organo per eccellenza basato sulla coop­tazione, era inadeguata a regge­re tutto questo, irretita com'era nella propria mentalità di rapi­na. Cesare non seppe né volle creare nuove strutture del pote­re. Ideò invece un compromes­so. Dissotterrò, dilatandone la durata nel tempo fino a farla illi­mitata, la dittatura: una magi­stratura «a tempo» prevista dal­l'ordinamento costituzionale ro­mano. Assunse le legioni — che erano, insieme, un esercito e un ceto (populus del resto in latino vuoi dire entrambe le cose) — co­me sua «base»: soprattutto nella guerra civile, nella quale la legali­tà la calpestarono tutti, cesariani, catoniani e pompeiani. Una volta ottenuta la vittoria nello scontro armato delle fazioni, cer­cò l'accordo con la maggior par­te possibile della vecchia aristo­crazia, ma allargò anche enorme­mente il Senato, portandolo a 900 membri. Sapeva — come ben scrive il Bonaparte — che l'aristocrazia si ricostituisce sempre e comunque: «Eliminatela nella nobiltà ed eccola rispuntare nel­le casate più ricche del Terzo Stato. Eliminatela anche qui ed essa sussiste nell'aristocrazia opera­ia». È contro questo compromesso che si mosse la minoranza fanatica dei congiurati. Narra Plutarco che, durante il suo primo consolato (59 a.G), Cesare, di fronte all'ostilità preconcetta del Sena­to verso le sue leggi agrarie, aveva gridato in faccia al Senato «che lui controvoglia si faceva trascina­re dalla parte del popolo, e ne assecondava le spin­te: per colpa della tracotanza e della durezza op­pressiva del Senato».



Uccidendolo, i congiurati non si avvidero di aver eliminato il più lucido e lungimirante esponente del loro ceto. A Roma essi persero il potere in pochi giorni, in poche ore. Si rifugiarono perciò a organizzare la guerra civile in provincia facendo leva sulle loro clientele provinciali, con le lusinghe o con la violenza. E così risospinsero la repubblica per anni nella guerra civile. Si proclamarono «libe­ratori» e tali sono rimasti nell'immaginario di mol­ti, grazie essenzialmente alla complice ignoranza dei posteri.



Il manuale di storia in voga in Francia, sotto il Terrore, scritto dal cittadino Bulard, della «Section Brutus», incitava gli scolari a farsi affrettanti Bruto e altrettanti Cassio: «Soyez tous autant de Brutus et de Cassius», ogni volta che sulla scena apparisse un ambizioso emulo di Cesare.